L'UOMO E' ALLA RICERCA DI DIO, MA IN REALTA' FIN DAL SUO CONCEPIMENTO E' CERCATO DA DIO, SIAMO PRONTI A RISPONDERE O PREFERIAMO NASCONDERCI?
Abramo, il capostipite delle tre religioni monoteistiche ha risposto alla chiamata che il Signore Dio gli ha fatto, per fede è partito senza sapere per quale meta e non ha mai rifiutato nulla a Dio, nemmeno il figlio, l'unico per Sara sua moglie, per questo in lui saranno benedette tutte le nazioni.
Dopo il peccato il Signore Dio chiamò l'uomo e gli chiede: "Dove sei?", la domanda rivolta da Dio ad Adamo che si era nascosto, svela che quella domanda è posta a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni luogo, all'uomo che nascondendosi da Dio si nasconde a se stesso.
Ecco dunque delinearsi un vero itinerario per la crescita, la maturità, l'autenticità dell'uomo.
Poi al tempo opportuno, il Signore Dio chiama Abram e gli dice: "Lekh Lekhà", esci, va', perché l'uomo per la sua crescita e per raggiungere l'autenticità deve innanzitutto tornare a se stesso: Lekh Lekhà, che tradotto letteralmente potrebbe diventare: "Va' per te! " ma anche Leki-lak: "va' verso te stesso", quindi ritrova te stesso, raggiungi il tuo destino, risali alla tua fonte... Dio si presenta dunque ad Abramo anzitutto come colui che conosce la verità di ciò che Abramo è e lo sprona a scoprirla.
L'uomo deve cioè fare della sua vita un cammino, rispondendo alla domanda: "Dove sei? " senza tentativi di nascondimento o affermazioni di impotenza.
Anche Gesù ci dice che; "là dove sarà il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore", e noi dobbiamo trovarlo, unire il cuore a ciò che ama.
Da questa prima tappa essenziale occorre prendere coscienza che sta davanti all'uomo una via particolare, sua propria: nessun tentativo di imitazione di ciò che è già stato percorso sarebbe sterile ripetizione e nessuna pretesa che la propria via escluda ad altri la loro via: non c'è una via unica, occorre invece scegliere la propria, e scegliere significa anche rinunciare.
Diceva Rabbi Sussja che nel mondo futuro non mi si chiederà: "Perché non sei stato Mosè?", bensì: "Perché non sei stato te stesso?". Ognuno ha una sua via e, sceltala, deve perseguirla con risolutezza, abbandonando la concezione della vita come accumulo di esperienze diverse: la decisione deve essere forte e risolutiva, senza tributi pagati al mito delle esperienze diverse e molteplici che produce solo dilettantismo.
Qualunque sia la via scelta, se essa è la propria via e se la si persegue con fedeltà e perseveranza, alla fine si conosce la gioia, la bellezza, la pienezza, e quindi il cammino percorso può aprirsi a Dio.
Nel corso del cammino, grazie alla risolutezza e alla fedeltà, per l'uomo è possibile infatti un'unificazione di tutto il suo essere, corpo e spirito. L'uomo è un essere diviso, contraddittorio, complicato, ma può conoscere il miracolo dell'unificazione mettendo la propria volontà in sinergia con la forza divina che giace nelle sue profondità. Solo l'uomo unificato può compiere l'opera intera e non operare rammendi.
Tutte le forze devono essere implicate nell'azione, tutte le componenti dell'essere umano, tutte le sue membra, altrimenti l'uomo resta schizofrenico; è l'adagio dell'ebraismo, tante volte rinnovato dai rabbini: ''Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo essere, con tutte le tue forze".
È necessario allora, per compiere l'opera grande, iniziare da se stessi, percorrere il cammino della teshuvah, del ritorno e quindi raggiungere gli altri uomini con la coscienza che un uomo autentico contribuisce alla trasformazione del mondo solo attraverso la propria trasformazione. Il conflitto con gli altri ha sempre la radice in se stessi e solo nel capovolgimento, nel ritorno, nella teshuvah questo è il punto di svolta risiede la possibilità dell'autentica apertura della relazione io-tu.
Ma "il Tu mi incontra per mezzo della grazia, non lo si trova cercandolo", e sta sempre sotto l'iniziativa divina. Sì, ritornare a se stessi, abbracciare il proprio cammino personalissimo, perseguirlo con risolutezza, unificare il proprio essere: tutto questo perché? Ed ecco la risposta: "Non per me, ma per gli altri, per il mondo ". Questo cammino dell'uomo non è finalizzato alla salvezza della propria anima sarebbe sublime egocentrismo ma è per gli uomini, per il mondo. Dalla domanda iniziale: "Dove sei?" si giunge quindi alla domanda finale: "Dove abita Dio?" con la rivelazione che Dio è là dove ci si trova, anzi, Dio è là dove l'uomo lo fa entrare mediante lo svolgimento fedele del suo compito, con il suo vivere le relazioni con gli uomini, con gli esseri viventi, con le cose, con il creato intero.
Questa presentazione contiene alcune parti della prefazione al libro “Il cammino dell’uomo” di Martin Buber fatta da Enzo Bianchi priore di Bose
Ecco dunque delinearsi un vero itinerario per la crescita, la maturità, l'autenticità dell'uomo.
Poi al tempo opportuno, il Signore Dio chiama Abram e gli dice: "Lekh Lekhà", esci, va', perché l'uomo per la sua crescita e per raggiungere l'autenticità deve innanzitutto tornare a se stesso: Lekh Lekhà, che tradotto letteralmente potrebbe diventare: "Va' per te! " ma anche Leki-lak: "va' verso te stesso", quindi ritrova te stesso, raggiungi il tuo destino, risali alla tua fonte... Dio si presenta dunque ad Abramo anzitutto come colui che conosce la verità di ciò che Abramo è e lo sprona a scoprirla.
L'uomo deve cioè fare della sua vita un cammino, rispondendo alla domanda: "Dove sei? " senza tentativi di nascondimento o affermazioni di impotenza.
Anche Gesù ci dice che; "là dove sarà il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore", e noi dobbiamo trovarlo, unire il cuore a ciò che ama.
Da questa prima tappa essenziale occorre prendere coscienza che sta davanti all'uomo una via particolare, sua propria: nessun tentativo di imitazione di ciò che è già stato percorso sarebbe sterile ripetizione e nessuna pretesa che la propria via escluda ad altri la loro via: non c'è una via unica, occorre invece scegliere la propria, e scegliere significa anche rinunciare.
Diceva Rabbi Sussja che nel mondo futuro non mi si chiederà: "Perché non sei stato Mosè?", bensì: "Perché non sei stato te stesso?". Ognuno ha una sua via e, sceltala, deve perseguirla con risolutezza, abbandonando la concezione della vita come accumulo di esperienze diverse: la decisione deve essere forte e risolutiva, senza tributi pagati al mito delle esperienze diverse e molteplici che produce solo dilettantismo.
Qualunque sia la via scelta, se essa è la propria via e se la si persegue con fedeltà e perseveranza, alla fine si conosce la gioia, la bellezza, la pienezza, e quindi il cammino percorso può aprirsi a Dio.
Nel corso del cammino, grazie alla risolutezza e alla fedeltà, per l'uomo è possibile infatti un'unificazione di tutto il suo essere, corpo e spirito. L'uomo è un essere diviso, contraddittorio, complicato, ma può conoscere il miracolo dell'unificazione mettendo la propria volontà in sinergia con la forza divina che giace nelle sue profondità. Solo l'uomo unificato può compiere l'opera intera e non operare rammendi.
Tutte le forze devono essere implicate nell'azione, tutte le componenti dell'essere umano, tutte le sue membra, altrimenti l'uomo resta schizofrenico; è l'adagio dell'ebraismo, tante volte rinnovato dai rabbini: ''Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo essere, con tutte le tue forze".
È necessario allora, per compiere l'opera grande, iniziare da se stessi, percorrere il cammino della teshuvah, del ritorno e quindi raggiungere gli altri uomini con la coscienza che un uomo autentico contribuisce alla trasformazione del mondo solo attraverso la propria trasformazione. Il conflitto con gli altri ha sempre la radice in se stessi e solo nel capovolgimento, nel ritorno, nella teshuvah questo è il punto di svolta risiede la possibilità dell'autentica apertura della relazione io-tu.
Ma "il Tu mi incontra per mezzo della grazia, non lo si trova cercandolo", e sta sempre sotto l'iniziativa divina. Sì, ritornare a se stessi, abbracciare il proprio cammino personalissimo, perseguirlo con risolutezza, unificare il proprio essere: tutto questo perché? Ed ecco la risposta: "Non per me, ma per gli altri, per il mondo ". Questo cammino dell'uomo non è finalizzato alla salvezza della propria anima sarebbe sublime egocentrismo ma è per gli uomini, per il mondo. Dalla domanda iniziale: "Dove sei?" si giunge quindi alla domanda finale: "Dove abita Dio?" con la rivelazione che Dio è là dove ci si trova, anzi, Dio è là dove l'uomo lo fa entrare mediante lo svolgimento fedele del suo compito, con il suo vivere le relazioni con gli uomini, con gli esseri viventi, con le cose, con il creato intero.
Questa presentazione contiene alcune parti della prefazione al libro “Il cammino dell’uomo” di Martin Buber fatta da Enzo Bianchi priore di Bose
LA PATERNITÀ DI ABRAMO COME PRESUPPOSTO DEL DIALOGO TRA MONOTEISMI
Di Giulio Michelini - Istituto Teologico di Assisi
Intervento per la celebrazione dello "Spirito di Assisi"
Sacro Convento — Assisi, 27 Ottobre 2014
Intervento per la celebrazione dello "Spirito di Assisi"
Sacro Convento — Assisi, 27 Ottobre 2014
“La paternità di Abramo come presupposto del dialogo tra monoteismi”: con questo intervento intendiamo partire dall’espressione “figlio/figli di Abramo” per trattare della speciale paternità del Patriarca. In quale senso tale espressione e tale concetto viene usato nei testi delle Scritture ebraiche e cristiane, e cosa ne discende per la Cristologia e il dialogo con la religione ebraica?
Paternità umana
La paternità di Abramo può essere vista anzitutto sul piano dell’esperienza umana. In questo modo, si sottolineano immediatamente le caratteristiche che fanno di lui un modello di vita piena, “icona e testimone di profonda umanità”.
Abramo poi è anche il primo essere umano – nel racconto di Genesi – a dialogare con la propria moglie. Nella tradizione giudaica, si mette in rilievo proprio quell’apprezzamento di Abram a Sarài [o Sara, ndr], che ogni donna vorrebbe sentirsi dire dal proprio coniuge: “Tu sei una donna di aspetto avvenente” (Gen 12,11). Sarài, tra l’altro, secondo il racconto genesiaco, doveva avere ormai 65 anni (cfr. 17,17), eppure Abram la trova bellissima
Paternità spirituale
Abramo è il primo esempio di fede in Colui che sarà poi chiamato “il Dio di Abramo”, e infatti egli per primo nella Bibbia, è soggetto del verbo “credere”, nel senso di “affidarsi” a YHWH: “E Abramo credette YHWH” (Gen 15,6). Da Terach, un padre politeista iconoclasta – secondo l’interpretazione giudaica – nasce un figlio credente.
Ecco perché si può parlare di una speciale paternità di Abramo, che è tale proprio in rapporto alla fede. Abramo è modello, dunque “tipo” o, appunto, “padre” di ogni persona che abbia fede in Dio.
Paternità secondo la carne
Se Paolo ha particolarmente insistito sulla paternità spirituale, non si deve dimenticare che esiste un’altra dimensione della paternità di Abramo, relativa alla sua generatività fisica, ovvero, come scrive sempre Paolo “secondo la carne” (Rm 4,1).
Negli inni del Magnificat e del Benedictus, Gesù è presentato come “figlio di Abramo”. Essere figlia o figlio di Abramo (Lc 13,16; 19,9) costituisce una grande dignità. Dobbiamo aggiungere quanto Gesù dice ai suoi interlocutori di Gerusalemme, nel capitolo 8 del Vangelo secondo Giovanni: “So che siete discendenza di Abramo” (v. 37).
Gesù, dunque, usa l’espressione “figlio/a/i di Abramo” come la userà a suo riguardo l’evangelista Matteo. È a questo tipo di discendenza secondo la carne che Matteo si riferisce all’inizio del suo Vangelo, quando parla di Gesù, “il Messia, figlio di Davide, figlio di Abramo” (Mt 1,1).
I due piani, quello della paternità secondo la carne e quello della fede, però, non devono essere confusi, e non solo nel caso di Gesù. Pur non accettando tutto il ragionamento di J. L. Ska (“Abramo nel Nuovo Testamento”, su La Civiltà cattolica 3613), riteniamo che la sua conclusione possa essere accolta: “Abramo ha una doppia paternità: anzitutto è padre per la fede – dei circoncisi e dei non circoncisi – ed è padre del popolo ebreo secondo la carne. Le due paternità non si escludono, ma la paternità secondo la fede precede quella secondo la carne, quindi è più importante”.
Naturalmente, questa è l’impostazione cristiana, ma si ritrova anche nelle parole profetiche del Battista, che relativizza l’importanza del legame familiare con Abramo. Discendere da lui secondo la carne non è sufficiente, né perfino necessario (Mt 3,9; Lc 3,8).
Implicazioni per il dialogo
Essere “figli di Abramo secondo la fede” è ciò che permette il dialogo tra le tre religioni monoteistiche. Ma essere “figli di Abramo secondo la carne” – categoria che pertiene all’ebraismo – è un punto di differenza, di distinzione, che non può essere assimilato ad altri o svalutato.
Solo l’Israele di Dio – quello da cui viene anche Gesù secondo la carne –, solo il popolo ebraico di oggi, quello che si autocomprende a partire dalle sue Scritture sacre, può legittimamente rivendicare una speciale discendenza. Non dovrà vantarsene, ma si dovrà partire sempre da questo punto per riconoscere che questo popolo – secondo le Scritture che accomunano ebrei (la Bibbia ebraica) e cristiani (Nuovo Testamento) – è il popolo che Dio ha scelto.
Su questa appartenenza secondo la carne può far leva ogni rivendicazione della cosiddetta “terza ricerca” su Gesù. Una delle più evidenti accentuazioni di tale ricerca è proprio quella riguardante la sua ebraicità, ovvero la sottolineatura di questo aspetto, l’appartenenza etnica al popolo di Israele, tramite la discendenza da Abramo.
“Nessuna generazione cristiana – afferma Paolo Sacchi – può alterare il dato irrinunciabile della sua ebraicità, e Gesù, nel suo percorso storico, non ha mai inteso superare l’ambito religioso del suo ebraismo: non ha mai postulato qualche cosa che lo portasse al di là di esso”.
Tale discendenza di Gesù da Abramo secondo la carne però deve essere ulteriormente specificata. Nel Nuovo Testamento, infatti, si trova un’ulteriore precisazione, quando Paolo distingue tra “i figli della carne” e non più semplicemente quelli a cui abbiamo accennato sopra, i figli secondo la fede, bensì “i figli della promessa” (Rm 9,8). Su questo punto dobbiamo essere precisi.
Anzitutto, sappiamo dall’esperienza umana che essere genitori o figli solo in senso naturale, secondo il diritto naturale, non è mai sufficiente. Una madre può dimenticarsi dei propri figli (cfr. Is 49,15), e addirittura Abramo può dimenticarsi del suo popolo (Is 63,16). Allo stesso modo, i figli possono dimenticare di essere tali: è quanto accade se ci si allontana dal Padre (cfr. parabola del “figlio prodigo”).
In secondo luogo, riprendendo l’opposizione di Paolo (Rm 9,7-8) tra figli “della carne” e “della promessa”, si deve dire che alcune spiegazioni di questo testo non sono convincenti. Dire ad esempio, come scrive Sandro Penna, che “non basta discendere fisicamente da Abramo per essere considerati suoi veri figli”, ripropone semplicemente una opposizione vero/falso (qual è l’opposto di “vero”? “Meno” vero?) che non sembra essere presente nel pensiero di Paolo. Quando l’Apostolo parla di figli della carne o della promessa, presume che essi siano comunque davvero figli.
Non basta nemmeno dire – sempre con Penna – che “Ismaele, l’altro figlio di Abramo (il primo!), fu escluso dall’eredità delle benedizioni spirituali”. Il bravo esegeta, giustamente, deve ritoccare in seguito questa affermazione specificando che “ciò non significa che Ismaele sia totalmente escluso da ogni benedizione divina, poiché al contrario egli è destinatario di alcune di esse (cfr. Gen 17,20; 21,13.18) tanto che anche a lui viene assegnata una discendenza di 12 tribù (Gen 25,13-16)”. A leggere bene la storia di Abramo, tra l’altro, si vede che il problema non riguarda solo Ismaele: Abramo ebbe, oltre al primogenito Ismaele da Agar, e Isacco da Sara, anche Zimran, Ioksan, Medan, Madian, Isbak e Suach dalla seconda moglie Keturà (Gen 21,1-2). In totale, dunque, otto figli, dei quali uno solo, però, secondo Genesi 18,10, è il figlio della promessa: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”.
Il paradosso
Quale teologia si potrà estrarre da una frase paolina o da testi simili che riguardano, come nella Lettera ai Galati 4,21-31, la contrapposizione tra i figli della donna libera, Agar, e quelli della schiava, nati, appunto, secondo la carne (il primo) e secondo la promessa (il secondo)?
Figli di Abramo lo si può essere al modo di coloro che vedono in lui un “padre dell’esperienza umana”; oppure come “figli nello spirito”, riconoscendo Abramo come padre nella fede, come lo sono i cristiani (e lo erano per Paolo i cristiani provenienti dai pagani); oppure “figli secondo la carne”, come lo è l’Israele popolo di Dio; oppure, ancora, “figli secondo la carne”, ma non nel senso della promessa, come lo sono i figli di Ismaele.
Davanti all’imperscrutabile volontà di un Dio che predilige i secondogeniti rispetto ai primogeniti e agli altri sei figli di Abramo, non si può stare che con una logica “paradossale”. Quella che porta, in ultima analisi, ad accettare che ogni figlio sia amato in modo differente, ma pur sempre amato, e che l’amore che il padre ha per l’altro fratello non possa essere rivendicato per sé, e nemmeno negato.
I figli della promessa, allora, quelli prediletti, non devono essere perseguitati perché sono tali, “prediletti” da Dio. È Paolo a dirlo, quando allude a un midrash relativo a Ismaele che, per il testo di Genesi 21,9, “scherzava” con Isacco; in realtà, nell’interpretazione rabbinica, gli lanciava frecce, o lo molestava (sessualmente). Non ci si può appropriare dell’amore che viene dato liberamente ad altri, ed è questo il presupposto di ogni dialogo tra fratelli.
Paternità umana
La paternità di Abramo può essere vista anzitutto sul piano dell’esperienza umana. In questo modo, si sottolineano immediatamente le caratteristiche che fanno di lui un modello di vita piena, “icona e testimone di profonda umanità”.
Abramo poi è anche il primo essere umano – nel racconto di Genesi – a dialogare con la propria moglie. Nella tradizione giudaica, si mette in rilievo proprio quell’apprezzamento di Abram a Sarài [o Sara, ndr], che ogni donna vorrebbe sentirsi dire dal proprio coniuge: “Tu sei una donna di aspetto avvenente” (Gen 12,11). Sarài, tra l’altro, secondo il racconto genesiaco, doveva avere ormai 65 anni (cfr. 17,17), eppure Abram la trova bellissima
Paternità spirituale
Abramo è il primo esempio di fede in Colui che sarà poi chiamato “il Dio di Abramo”, e infatti egli per primo nella Bibbia, è soggetto del verbo “credere”, nel senso di “affidarsi” a YHWH: “E Abramo credette YHWH” (Gen 15,6). Da Terach, un padre politeista iconoclasta – secondo l’interpretazione giudaica – nasce un figlio credente.
Ecco perché si può parlare di una speciale paternità di Abramo, che è tale proprio in rapporto alla fede. Abramo è modello, dunque “tipo” o, appunto, “padre” di ogni persona che abbia fede in Dio.
Paternità secondo la carne
Se Paolo ha particolarmente insistito sulla paternità spirituale, non si deve dimenticare che esiste un’altra dimensione della paternità di Abramo, relativa alla sua generatività fisica, ovvero, come scrive sempre Paolo “secondo la carne” (Rm 4,1).
Negli inni del Magnificat e del Benedictus, Gesù è presentato come “figlio di Abramo”. Essere figlia o figlio di Abramo (Lc 13,16; 19,9) costituisce una grande dignità. Dobbiamo aggiungere quanto Gesù dice ai suoi interlocutori di Gerusalemme, nel capitolo 8 del Vangelo secondo Giovanni: “So che siete discendenza di Abramo” (v. 37).
Gesù, dunque, usa l’espressione “figlio/a/i di Abramo” come la userà a suo riguardo l’evangelista Matteo. È a questo tipo di discendenza secondo la carne che Matteo si riferisce all’inizio del suo Vangelo, quando parla di Gesù, “il Messia, figlio di Davide, figlio di Abramo” (Mt 1,1).
I due piani, quello della paternità secondo la carne e quello della fede, però, non devono essere confusi, e non solo nel caso di Gesù. Pur non accettando tutto il ragionamento di J. L. Ska (“Abramo nel Nuovo Testamento”, su La Civiltà cattolica 3613), riteniamo che la sua conclusione possa essere accolta: “Abramo ha una doppia paternità: anzitutto è padre per la fede – dei circoncisi e dei non circoncisi – ed è padre del popolo ebreo secondo la carne. Le due paternità non si escludono, ma la paternità secondo la fede precede quella secondo la carne, quindi è più importante”.
Naturalmente, questa è l’impostazione cristiana, ma si ritrova anche nelle parole profetiche del Battista, che relativizza l’importanza del legame familiare con Abramo. Discendere da lui secondo la carne non è sufficiente, né perfino necessario (Mt 3,9; Lc 3,8).
Implicazioni per il dialogo
Essere “figli di Abramo secondo la fede” è ciò che permette il dialogo tra le tre religioni monoteistiche. Ma essere “figli di Abramo secondo la carne” – categoria che pertiene all’ebraismo – è un punto di differenza, di distinzione, che non può essere assimilato ad altri o svalutato.
Solo l’Israele di Dio – quello da cui viene anche Gesù secondo la carne –, solo il popolo ebraico di oggi, quello che si autocomprende a partire dalle sue Scritture sacre, può legittimamente rivendicare una speciale discendenza. Non dovrà vantarsene, ma si dovrà partire sempre da questo punto per riconoscere che questo popolo – secondo le Scritture che accomunano ebrei (la Bibbia ebraica) e cristiani (Nuovo Testamento) – è il popolo che Dio ha scelto.
Su questa appartenenza secondo la carne può far leva ogni rivendicazione della cosiddetta “terza ricerca” su Gesù. Una delle più evidenti accentuazioni di tale ricerca è proprio quella riguardante la sua ebraicità, ovvero la sottolineatura di questo aspetto, l’appartenenza etnica al popolo di Israele, tramite la discendenza da Abramo.
“Nessuna generazione cristiana – afferma Paolo Sacchi – può alterare il dato irrinunciabile della sua ebraicità, e Gesù, nel suo percorso storico, non ha mai inteso superare l’ambito religioso del suo ebraismo: non ha mai postulato qualche cosa che lo portasse al di là di esso”.
Tale discendenza di Gesù da Abramo secondo la carne però deve essere ulteriormente specificata. Nel Nuovo Testamento, infatti, si trova un’ulteriore precisazione, quando Paolo distingue tra “i figli della carne” e non più semplicemente quelli a cui abbiamo accennato sopra, i figli secondo la fede, bensì “i figli della promessa” (Rm 9,8). Su questo punto dobbiamo essere precisi.
Anzitutto, sappiamo dall’esperienza umana che essere genitori o figli solo in senso naturale, secondo il diritto naturale, non è mai sufficiente. Una madre può dimenticarsi dei propri figli (cfr. Is 49,15), e addirittura Abramo può dimenticarsi del suo popolo (Is 63,16). Allo stesso modo, i figli possono dimenticare di essere tali: è quanto accade se ci si allontana dal Padre (cfr. parabola del “figlio prodigo”).
In secondo luogo, riprendendo l’opposizione di Paolo (Rm 9,7-8) tra figli “della carne” e “della promessa”, si deve dire che alcune spiegazioni di questo testo non sono convincenti. Dire ad esempio, come scrive Sandro Penna, che “non basta discendere fisicamente da Abramo per essere considerati suoi veri figli”, ripropone semplicemente una opposizione vero/falso (qual è l’opposto di “vero”? “Meno” vero?) che non sembra essere presente nel pensiero di Paolo. Quando l’Apostolo parla di figli della carne o della promessa, presume che essi siano comunque davvero figli.
Non basta nemmeno dire – sempre con Penna – che “Ismaele, l’altro figlio di Abramo (il primo!), fu escluso dall’eredità delle benedizioni spirituali”. Il bravo esegeta, giustamente, deve ritoccare in seguito questa affermazione specificando che “ciò non significa che Ismaele sia totalmente escluso da ogni benedizione divina, poiché al contrario egli è destinatario di alcune di esse (cfr. Gen 17,20; 21,13.18) tanto che anche a lui viene assegnata una discendenza di 12 tribù (Gen 25,13-16)”. A leggere bene la storia di Abramo, tra l’altro, si vede che il problema non riguarda solo Ismaele: Abramo ebbe, oltre al primogenito Ismaele da Agar, e Isacco da Sara, anche Zimran, Ioksan, Medan, Madian, Isbak e Suach dalla seconda moglie Keturà (Gen 21,1-2). In totale, dunque, otto figli, dei quali uno solo, però, secondo Genesi 18,10, è il figlio della promessa: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”.
Il paradosso
Quale teologia si potrà estrarre da una frase paolina o da testi simili che riguardano, come nella Lettera ai Galati 4,21-31, la contrapposizione tra i figli della donna libera, Agar, e quelli della schiava, nati, appunto, secondo la carne (il primo) e secondo la promessa (il secondo)?
Figli di Abramo lo si può essere al modo di coloro che vedono in lui un “padre dell’esperienza umana”; oppure come “figli nello spirito”, riconoscendo Abramo come padre nella fede, come lo sono i cristiani (e lo erano per Paolo i cristiani provenienti dai pagani); oppure “figli secondo la carne”, come lo è l’Israele popolo di Dio; oppure, ancora, “figli secondo la carne”, ma non nel senso della promessa, come lo sono i figli di Ismaele.
Davanti all’imperscrutabile volontà di un Dio che predilige i secondogeniti rispetto ai primogeniti e agli altri sei figli di Abramo, non si può stare che con una logica “paradossale”. Quella che porta, in ultima analisi, ad accettare che ogni figlio sia amato in modo differente, ma pur sempre amato, e che l’amore che il padre ha per l’altro fratello non possa essere rivendicato per sé, e nemmeno negato.
I figli della promessa, allora, quelli prediletti, non devono essere perseguitati perché sono tali, “prediletti” da Dio. È Paolo a dirlo, quando allude a un midrash relativo a Ismaele che, per il testo di Genesi 21,9, “scherzava” con Isacco; in realtà, nell’interpretazione rabbinica, gli lanciava frecce, o lo molestava (sessualmente). Non ci si può appropriare dell’amore che viene dato liberamente ad altri, ed è questo il presupposto di ogni dialogo tra fratelli.
Scopo del sito
Questo sito nasce ad uso personale, come deposito di ciò che trovo ed ho trovato in passato come informazioni sulla mia fede, e quella di altri. Ciò che è pubblicato è per buona parte estratto dai siti confessionali, per cui nella descrizione delle varie fedi che procedono da Abramo sono attendibili, poiché ognuno descrive se stesso. Se poi qualcosa dovesse risultare non esatto, poiché non tutte le informazioni provengono da questi siti e sono controllate da un'autorità competente in materia, ma sono frutto di una personale ricerca, questo è comunque stato pubblicato in buona fede e non me ne assumo la responsabilità. Oltretutto, dove possibile ho citato le fonti e spesso ho inserito i link per gli approfondimenti, così ognuno che volesse approfondire lo può fare personalmente.
La decisione poi di rendere pubblico il sito, è derivata dal desiderio di condividere con chi ha interesse ad informarsi per conoscere l'altro, colui che crede nello stesso Dio, pur chiamandolo con un nome diverso, pensandoLo e rapportandosi con Lui attraverso la propria cultura di provenienza, lo possa fare.
Nella speranza che il Signore Dio, benedetto sia il Suo Nome, ci aiuti nella conoscenza reciproca, nell'aiuto e nella tolleranza gli uni degli altri, avviandoci con fede all'incontro con Lui a cui siamo destinati, quando Egli Lo vorrà.
Amen.
La decisione poi di rendere pubblico il sito, è derivata dal desiderio di condividere con chi ha interesse ad informarsi per conoscere l'altro, colui che crede nello stesso Dio, pur chiamandolo con un nome diverso, pensandoLo e rapportandosi con Lui attraverso la propria cultura di provenienza, lo possa fare.
Nella speranza che il Signore Dio, benedetto sia il Suo Nome, ci aiuti nella conoscenza reciproca, nell'aiuto e nella tolleranza gli uni degli altri, avviandoci con fede all'incontro con Lui a cui siamo destinati, quando Egli Lo vorrà.
Amen.