PARASHA E HAFTAROT
Parasha (in ebraico פרשה, plurale פרשות - parashot) è una suddivisione della Torah destinata a definire la lettura settimanale della Torah stessa.
La lettura pubblica della Torah risale probabilmente all'epoca della fine dell'esilio babilonese, ai tempi di Ezra e Nehemia. Da allora, in epoche successive, la lettura è stata codificata fino ad assumere un ciclo annuale. Ai nostri tempi la lettura inizia con la festa di Simchat Torah (Parasha di Bereshit) e prosegue per 52 settimane.
La lettura della parasha avviene il Sabato nel corso della preghiera di Shachrit, ma viene effettuata una anteprima di 1 brano (dei 7 totali) durante lo Shachrit del lunedì e del giovedì della settimana che precede.
La lettura segue uno schema preciso. Prima della lettura... ALTRO
La lettura pubblica della Torah risale probabilmente all'epoca della fine dell'esilio babilonese, ai tempi di Ezra e Nehemia. Da allora, in epoche successive, la lettura è stata codificata fino ad assumere un ciclo annuale. Ai nostri tempi la lettura inizia con la festa di Simchat Torah (Parasha di Bereshit) e prosegue per 52 settimane.
La lettura della parasha avviene il Sabato nel corso della preghiera di Shachrit, ma viene effettuata una anteprima di 1 brano (dei 7 totali) durante lo Shachrit del lunedì e del giovedì della settimana che precede.
La lettura segue uno schema preciso. Prima della lettura... ALTRO
I MIDRASH
Midrash (ebr. מדרש; plurale Midrashim) è uno dei metodi ebraici di interpretazione e commento dei testi sacri ebraici.
Il sostantivo Midrash deriva dall'ebraico darash (דרש) che, tanto nel Tanakh quanto nella Torah orale, significa soprattutto ricercare, scrutare, esaminare, studiare ma anche "racconto", così da intendersi come "strada interiore in evolversi".
Indica altresì il risultato di questa ricerca applicata alle parti legislative per dedurne conseguenze giuridiche, questa elaborazione dà il midrash halakhah da halakh (הלך) (lett. camminare da cui regola di condotta, interpretazione normativa); applicata alle sezioni narrative dà il midrash haggadah, da higghîd (הגד) (lett. annunciare, raccontare che comprende racconti storici o leggendari): sviluppi d'ordine morale o edificante.
Storia
Il midrash parte sempre, in modo più o meno esplicito, dalla Scrittura e, immesso in forme diverse, può essere espresso secondo i generi letterari differenti che lo trasmettono. Come tipo di attività esegetica, prodotto di questa attività, il midrash è già presente nella Bibbia (di cui chiarisce spesso il processo di formazione), nella letteratura intertestamentaria (sono proibiti secondo l'Halakhah gli scritti Apocrifi e di Qumrân) così come nel Nuovo Testamento (NT). I risultati di secoli di "ricerca biblica" nelle scuole (Yeshivah o beth haMidrash: cf Sir 51, 23) e nelle sinagoghe, dopo un lunghissimo periodo di trasmissione orale, furono progressivamente messi per scritto per formare le raccolte multiple chiamate midrashim.
Tra i più importanti sono i midrashim tannaitici che riferiscono tradizioni del I-II s.
Il metodo
Nella tradizione rabbinica, midrash designa anzitutto una attività e un metodo di interpretazione della Scrittura che, andando al di là del senso letterale - chiamato peshat o pashut (פשות), semplice, ovvio - scruta il testo in profondità (secondo regole e tecniche proprie dette Middot esegetiche) e sotto tutti gli aspetti per attualizzarlo e adattarlo ai bisogni e alle concezioni delle comunità ebraica e della visione ebraica del Mondo e traendone applicazioni pratiche e significati nuovi che sono lontani dall'apparire a prima vista.
Esistono opinioni della Cabala ebraica secondo le quali il "Midrash" è simile alla "natura spirituale interiore femminile" mentre la Torah scritta a quella maschile: questo principio non esclude che lo studio di Torah e Midrashim possa essere effettuato e da uomini e da donne; inoltre la natura del Talmud è assai simile alla dialettica "in crescendo" tra due donne ebree ispirate secondo Binah alla verità, non escludendo le altre Sefirot.
Vedi alcuni midrash
Il sostantivo Midrash deriva dall'ebraico darash (דרש) che, tanto nel Tanakh quanto nella Torah orale, significa soprattutto ricercare, scrutare, esaminare, studiare ma anche "racconto", così da intendersi come "strada interiore in evolversi".
Indica altresì il risultato di questa ricerca applicata alle parti legislative per dedurne conseguenze giuridiche, questa elaborazione dà il midrash halakhah da halakh (הלך) (lett. camminare da cui regola di condotta, interpretazione normativa); applicata alle sezioni narrative dà il midrash haggadah, da higghîd (הגד) (lett. annunciare, raccontare che comprende racconti storici o leggendari): sviluppi d'ordine morale o edificante.
Storia
Il midrash parte sempre, in modo più o meno esplicito, dalla Scrittura e, immesso in forme diverse, può essere espresso secondo i generi letterari differenti che lo trasmettono. Come tipo di attività esegetica, prodotto di questa attività, il midrash è già presente nella Bibbia (di cui chiarisce spesso il processo di formazione), nella letteratura intertestamentaria (sono proibiti secondo l'Halakhah gli scritti Apocrifi e di Qumrân) così come nel Nuovo Testamento (NT). I risultati di secoli di "ricerca biblica" nelle scuole (Yeshivah o beth haMidrash: cf Sir 51, 23) e nelle sinagoghe, dopo un lunghissimo periodo di trasmissione orale, furono progressivamente messi per scritto per formare le raccolte multiple chiamate midrashim.
Tra i più importanti sono i midrashim tannaitici che riferiscono tradizioni del I-II s.
Il metodo
Nella tradizione rabbinica, midrash designa anzitutto una attività e un metodo di interpretazione della Scrittura che, andando al di là del senso letterale - chiamato peshat o pashut (פשות), semplice, ovvio - scruta il testo in profondità (secondo regole e tecniche proprie dette Middot esegetiche) e sotto tutti gli aspetti per attualizzarlo e adattarlo ai bisogni e alle concezioni delle comunità ebraica e della visione ebraica del Mondo e traendone applicazioni pratiche e significati nuovi che sono lontani dall'apparire a prima vista.
Esistono opinioni della Cabala ebraica secondo le quali il "Midrash" è simile alla "natura spirituale interiore femminile" mentre la Torah scritta a quella maschile: questo principio non esclude che lo studio di Torah e Midrashim possa essere effettuato e da uomini e da donne; inoltre la natura del Talmud è assai simile alla dialettica "in crescendo" tra due donne ebree ispirate secondo Binah alla verità, non escludendo le altre Sefirot.
Vedi alcuni midrash
SPIEGAZIONI EBRAICHE SU LEKH-LEKHA'

Parashà di Lekh Lekhà: Perché il nostro patriarca Avraham andò a salvare Lot
Nei Pirqè Avòt (Massime dei Padri) è scritto (5:3): Avraham nostro padre fu sottoposto a dieci prove ed egli le superò tutte per far conoscere quanto fosse l’amore [verso il Creatore] di Avraham nostro padre. La Mishnà non offre dettagli su quali furono le prove alle quali fu sottoposto il patriarca Avraham. Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel suo commento alla Mishnà scrive che le dieci prove del patriarca Avraham sono tutte nella Torà:
1. La prima fu l’esilio, quando il Creatore gli diede l’ordine “Vattene dalla tua terra e dalla tua famiglia” (Bereshìt-Genesi, 12:1).
2. La seconda fu la carestia. Poco dopo il suo arrivo nella terra di Canaan (12:10) e dopo che l’Eterno gli aveva promesso di fare di lui un grande popolo, di benedirlo e di renderlo famoso (12:2).
3. La terza fu il sopruso a cui venne sottoposto in Egitto quando la moglie Sara fu presa e portata nella reggia del Faraone (12:15) che la lasciò libera solo dopo che lui e i suoi servi furono colpiti da una malattia.
4. Il quarto fu la battaglia contro i quattro Re che avevano invaso la Terra di Canaan, sconfiggendo i Re di Sodoma, Gomorra e delle altre tre città, e che avevano preso prigioniero Lot nipote di Avraham (14:1-24).
5. Il quinto fu quello di dover prendere Hagar come concubina quando aveva perso la speranza di poter avere figli da Sara (16:1-4).
6. Il sesto fu quello di doversi sottoporre alla milà (circoncisione) alla sua età veneranda di 99 anni (17:24).
7. Il settimo fu il sopruso subito per mano del Re filisteo di Gheràr che gli prese la moglie Sara (20:2) lasciandola libera solo dopo la minaccia di morte da parte dell’Eterno.
8. L’ottavo fu quello di dover mandare via Hagar dopo aver avuto da lei un figlio (21:10).
9. Il nono fu quello di dover mandare via il figlio Yishmael, per cui nella Torà è scritto che la cosa gli fece molto male (21:11).
10. Il decimo fu quello di dover legare il figlio Yitzchàq all’altare per essere sacrificato (22:1-19).
Nel Midràsh Pirqè DeRabbì Eli’èzer (cap. 26) viene elencata come prima prova la condanna di Avraham ad essere gettato nella fornace dal re Nimrod quando abitava ancora a Ur Kasdim, per avere distrutto gli idoli ed essersi ribellato alla idolatrica religione di stato e fatto propaganda monoteistica. I Maestri nel Midràsh Rabbà (38:13) spiegano che Haran, fratello minore di Avraham morì per colpa del padre Terach. Terach si lamentò con il re Nimrod che Avraham gli aveva distrutto gli idoli. Il Re lo condannò ad essere gettato nella fornace e per miracolo egli uscì vivo. Il fratello Haran non sapeva che parte prendere e decise che se Avraham si fosse salvato avrebbe dichiarato di essere dalla parte di Avraham, altrimenti avrebbe dichiarato di essere dalla parte del re Nimrod. Quando Avraham risalì vivo dalla fornace, Haran disse di essere dalla sua parte. Così il Re lo fece gettare nella fornace dove morì. Lot, figlio di Haran, seguì Avraham quando partì per la Terra di Canaan e ne divenne il principale discepolo.
Rav Yosef Shalom Eliashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) dopo aver citato il Midràsh aggiunge che R. Menachèm Mendel Morgenstern, Rebbe di Kotzk (Lublino, 1787-1859) affermò in modo paradossale che “Avraham non ci credeva; Haran sì che ci credeva”. Avraham era disposto a sacrificare la vita per il monoteismo e non credeva che si sarebbe salvato. Haran invece credeva che si sarebbe salvato; non era disposto a morire per la fede di Avraham; egli credeva che sarebbe vissuto. Non aveva quello spirito di sacrificio per il quale l’Eterno fa miracoli e così Haran mori nella fornace. Rav Eliashiv scrive che Avraham non aveva bisogno di queste prove per mostrare che era un uomo giusto; alla fine l’Eterno conosce i pensieri degli uomini e sapeva bene chi era Avraham. Le dieci prove alle quali fu sottoposto Avraham avevano lo scopo di dare fama ad Avraham e fare sì che egli divenisse “una luce” e che tutti potessero imparare da lui.
Avraham con soli 318 uomini andò a combattere contro i quattro Re, che con migliaia di soldati avevano invaso la Terra di Canaan, per salvare il nipote Lot che era stato da loro preso prigioniero insieme con gli altri abitanti di Sodoma, dove era andato ad abitare. Rav Eliashiv chiede per quale motivo Avraham rischiò la vita per Lot? Lot si era allontanato da lui, lo aveva abbandonato e aveva abbandonato gli insegnamenti di Avraham per andare a godere la dolce vita di Sodoma. Nonostante questo quando Avraham seppe che il re Amrafel (secondo il Talmùd ‘Eruvìn, 53a, Amrafel e Nimrod sono la stessa persona) aveva preso Lot proprio perché era suo nipote, considerò una profanazione del Nome dell’Eterno lasciare apparire che Nimrod si vendicasse di Avraham in questo modo. Rav Eliashiv risponde che quando gli israeliti vengono perseguitati, anche quelli più assimilati non si salvano dalle persecuzioni. Nonostante tutto Lot era rimasto “Il figlio del fratello di Avraham” (14:12) e andava salvato.
Rav Yosef Dov Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) nel commento pubblicato in Massoret Harav (2013) scrive: Quando Avraham ebbe la notizia che Lot era stato preso prigioniero, una reazione normale da parte sua sarebbe stata quella di dire “Se l’ho è meritato; gli avevo detto di non associarsi ai Sodomiti”; Lot aveva respinto gli isegnamenti di Avraham e quello che l’Eterno richiedeva preferendo abitare in una società dedicata ai piaceri invece di seguire il patto di Avraham. Nonostante ciò Avraham non reagì ignorando le sofferenza del nipote. Un ebreo deve sentirsi in dovere di salvare suo fratello anche se costui ha abbandonato la via retta.
Donato Grosser
Tratto da: http://www.romaebraica.it/parasha-di-lekh-lekha-perche-il-nostro-patriarca-avraham-ando-a-salvare-lot/
Nei Pirqè Avòt (Massime dei Padri) è scritto (5:3): Avraham nostro padre fu sottoposto a dieci prove ed egli le superò tutte per far conoscere quanto fosse l’amore [verso il Creatore] di Avraham nostro padre. La Mishnà non offre dettagli su quali furono le prove alle quali fu sottoposto il patriarca Avraham. Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel suo commento alla Mishnà scrive che le dieci prove del patriarca Avraham sono tutte nella Torà:
1. La prima fu l’esilio, quando il Creatore gli diede l’ordine “Vattene dalla tua terra e dalla tua famiglia” (Bereshìt-Genesi, 12:1).
2. La seconda fu la carestia. Poco dopo il suo arrivo nella terra di Canaan (12:10) e dopo che l’Eterno gli aveva promesso di fare di lui un grande popolo, di benedirlo e di renderlo famoso (12:2).
3. La terza fu il sopruso a cui venne sottoposto in Egitto quando la moglie Sara fu presa e portata nella reggia del Faraone (12:15) che la lasciò libera solo dopo che lui e i suoi servi furono colpiti da una malattia.
4. Il quarto fu la battaglia contro i quattro Re che avevano invaso la Terra di Canaan, sconfiggendo i Re di Sodoma, Gomorra e delle altre tre città, e che avevano preso prigioniero Lot nipote di Avraham (14:1-24).
5. Il quinto fu quello di dover prendere Hagar come concubina quando aveva perso la speranza di poter avere figli da Sara (16:1-4).
6. Il sesto fu quello di doversi sottoporre alla milà (circoncisione) alla sua età veneranda di 99 anni (17:24).
7. Il settimo fu il sopruso subito per mano del Re filisteo di Gheràr che gli prese la moglie Sara (20:2) lasciandola libera solo dopo la minaccia di morte da parte dell’Eterno.
8. L’ottavo fu quello di dover mandare via Hagar dopo aver avuto da lei un figlio (21:10).
9. Il nono fu quello di dover mandare via il figlio Yishmael, per cui nella Torà è scritto che la cosa gli fece molto male (21:11).
10. Il decimo fu quello di dover legare il figlio Yitzchàq all’altare per essere sacrificato (22:1-19).
Nel Midràsh Pirqè DeRabbì Eli’èzer (cap. 26) viene elencata come prima prova la condanna di Avraham ad essere gettato nella fornace dal re Nimrod quando abitava ancora a Ur Kasdim, per avere distrutto gli idoli ed essersi ribellato alla idolatrica religione di stato e fatto propaganda monoteistica. I Maestri nel Midràsh Rabbà (38:13) spiegano che Haran, fratello minore di Avraham morì per colpa del padre Terach. Terach si lamentò con il re Nimrod che Avraham gli aveva distrutto gli idoli. Il Re lo condannò ad essere gettato nella fornace e per miracolo egli uscì vivo. Il fratello Haran non sapeva che parte prendere e decise che se Avraham si fosse salvato avrebbe dichiarato di essere dalla parte di Avraham, altrimenti avrebbe dichiarato di essere dalla parte del re Nimrod. Quando Avraham risalì vivo dalla fornace, Haran disse di essere dalla sua parte. Così il Re lo fece gettare nella fornace dove morì. Lot, figlio di Haran, seguì Avraham quando partì per la Terra di Canaan e ne divenne il principale discepolo.
Rav Yosef Shalom Eliashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) dopo aver citato il Midràsh aggiunge che R. Menachèm Mendel Morgenstern, Rebbe di Kotzk (Lublino, 1787-1859) affermò in modo paradossale che “Avraham non ci credeva; Haran sì che ci credeva”. Avraham era disposto a sacrificare la vita per il monoteismo e non credeva che si sarebbe salvato. Haran invece credeva che si sarebbe salvato; non era disposto a morire per la fede di Avraham; egli credeva che sarebbe vissuto. Non aveva quello spirito di sacrificio per il quale l’Eterno fa miracoli e così Haran mori nella fornace. Rav Eliashiv scrive che Avraham non aveva bisogno di queste prove per mostrare che era un uomo giusto; alla fine l’Eterno conosce i pensieri degli uomini e sapeva bene chi era Avraham. Le dieci prove alle quali fu sottoposto Avraham avevano lo scopo di dare fama ad Avraham e fare sì che egli divenisse “una luce” e che tutti potessero imparare da lui.
Avraham con soli 318 uomini andò a combattere contro i quattro Re, che con migliaia di soldati avevano invaso la Terra di Canaan, per salvare il nipote Lot che era stato da loro preso prigioniero insieme con gli altri abitanti di Sodoma, dove era andato ad abitare. Rav Eliashiv chiede per quale motivo Avraham rischiò la vita per Lot? Lot si era allontanato da lui, lo aveva abbandonato e aveva abbandonato gli insegnamenti di Avraham per andare a godere la dolce vita di Sodoma. Nonostante questo quando Avraham seppe che il re Amrafel (secondo il Talmùd ‘Eruvìn, 53a, Amrafel e Nimrod sono la stessa persona) aveva preso Lot proprio perché era suo nipote, considerò una profanazione del Nome dell’Eterno lasciare apparire che Nimrod si vendicasse di Avraham in questo modo. Rav Eliashiv risponde che quando gli israeliti vengono perseguitati, anche quelli più assimilati non si salvano dalle persecuzioni. Nonostante tutto Lot era rimasto “Il figlio del fratello di Avraham” (14:12) e andava salvato.
Rav Yosef Dov Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) nel commento pubblicato in Massoret Harav (2013) scrive: Quando Avraham ebbe la notizia che Lot era stato preso prigioniero, una reazione normale da parte sua sarebbe stata quella di dire “Se l’ho è meritato; gli avevo detto di non associarsi ai Sodomiti”; Lot aveva respinto gli isegnamenti di Avraham e quello che l’Eterno richiedeva preferendo abitare in una società dedicata ai piaceri invece di seguire il patto di Avraham. Nonostante ciò Avraham non reagì ignorando le sofferenza del nipote. Un ebreo deve sentirsi in dovere di salvare suo fratello anche se costui ha abbandonato la via retta.
Donato Grosser
Tratto da: http://www.romaebraica.it/parasha-di-lekh-lekha-perche-il-nostro-patriarca-avraham-ando-a-salvare-lot/

Parashà di Lekh Lekhà: non basta amare la giustizia, bisogna anche condannare l’ingiustizia
Midrash Rabba 1720
In questa parashà viene raccontato l’episodio della separazione tra Avraham e suo nipote Lot e le tragiche conseguenze della decisione di Lot di scegliere Sodoma come residenza. A seguito di un litigio tra i pastori di Avraham e quelli di Lot, Avraham disse a Lot: “Evitiamo discordie tra noi due e tra i nostri pastori perché siamo parenti. Hai davanti a te tutto il paese, fammi il favore di separarti da me, se andrai a sinistra io andrò a destra, se andrai a destra io andrò a sinistra. E Lot alzò gli occhi e vide la valle del Giordano che prima che l’Eterno distruggesse Sodoma e Gomorra era tutta irrigata fino a Tzo’ar come il giardino dell’Eterno, come l’Egitto” (Bereshìt – Genesi, 13: 8-10). E poco più avanti è scritto che “gli abitanti di Sodoma erano assai malvagi e peccatori nei confronti dell’Eterno” (ibid., 13:13).
Rashì (Francia, 1040-1104) al versetto “Se andrai a sinistra io andrò a destra” commenta: “Ovunque andrai ad abitare non mi allontanerò da te e ti sarò da scudo e di supporto e così avvenne che fu raccontato ad Avraham che il suo parente era stato preso prigioniero” (ibid., 14:13-14).
Il Midràsh presenta delle spiegazioni ambivalenti a questo episodio che mettono in evidenza il dilemma nel quale si trovava Avraham. I sodomiti erano malvagi e Lot scelse proprio la loro città, attratto dalle ricchezze del posto. Il Midràsh Rabbà (Lekh Lekhà, 41:45, Ed. Amsterdam, 1720) commenta che nel scegliere Sodoma, Lot “si allontanò dall’Antico del Mondo [cioè dall’Eterno] affermando che non desiderava né Avraham né il suo Dio”. Nello stesso Midràsh è detto: “R. Yudà afferma: «Avraham nostro patriarca sollevò ira quando Lot, figlio di suo fratello, si separò da lui; il Santo Benedetto disse: ‘lui [Avraham] si accompagna a tutti e a Lot che è suo parente non si accompagna’»”.
D’altra parte, nello stesso passo midrashico un altro Maestro della Mishnà afferma: “Il Santo Benedetto si adirò [con Avraham] quando Lot andava insieme con il nostro patriarca Avraham. Il Santo Benedetto disse: «gli ho detto che ho dato questo paese alla sua discendenza e lui aggrega a se Lot figlio di suo fratello come erede; se è cosi, che vada a prendere due trovatelli dalla strada e li faccia ereditare come vuole fare con il figlio del fratello»”.
Il commento Yefè Toar al Midràsh Rabbà di R. Shemuel Yaffe Ashkenazi (Costantinopoli, 1525-1595), citato nell’opera antologica Me’am Lo’ez, racconta che in Cielo avvenne figurativamente una grande discussione tra l’Eterno e i gli angeli riguardo al comportamento di Avraham nei confronti del nipote Lot. Gli angeli sostenevano che Avraham era passibile di pena di morte perché si era accompagnato a Lot e per questo motivo la Presenza Divina [cioè la profezia] si era allontanata da Avraham per tutto il tempo in cui Lot era con lui. Nonostante ciò, quando Avraham disse a Lot di separarsi, il Santo Benedetto si adirò con lui e gli disse: “Anche se Lot è malvagio e non doveva starti a fianco, non dovevi porre una così grande separazione tra di voi dal sud al nord. Avresti dovuto tenertelo vicino e in questo modo avrebbe potuto vedere le tue buone azioni e tornare sulla retta via”. Il Me’am Lo’ez conclude che da qui si impara che bisogna avvicinare i parenti e non ignorarli anche se sono dei miserabili.
R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) nell’opera Divrè Haggadà (pp. 30-31) commenta che Lot seguì Avraham nei suoi viaggi perché sperava di diventarne l’erede. Tuttavia era certamente uno dei discepoli di Avraham, che fin da quando abitava a Charan insegnava che il mondo aveva un Creatore. Con tutto ciò Lot se ne andò ad abitare proprio a Sodoma, abbandonando il mondo spirituale di Avraham per quello materiale di Sodoma. Da qui si vede che fin dall’inizio Lot non era sincero. Per Avraham, Lot fu una grande delusione che gli fece perdere speranza di poter cambiare il mondo. Tanto è vero che quando il Re di Sodoma chiese ad Avraham di restituirgli i cittadini di Sodoma che Avraham aveva liberato insieme con Lot nella guerra contro i quattro Re, Avraham li restituì subito invece di cercare di tenerli presso di sé e di insegnare loro il monoteismo. Avraham venne criticato, perché non bisogna mai perdere la speranza di fare tornare qualcuno sulla retta strada.
R. Yosef Dov Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) nell’opera Massoret Harav (p. 83), soffermandosi sulla decisione di Lot di andare ad abitare a Sodoma, afferma che Lot era conscio della grandezza di Avraham tuttavia non voleva seguirne l’esempio. Lot capiva che la vita di Avraham era una vita di abnegazione che richiedeva difficoltà e sacrifici. Egli amava Avraham ma in Sodoma egli vedeva un altro modo di vivere: una vita confortevole senza sacrifici. Se fosse stato differente non sarebbe andato a stabilirsi a Sodoma; andando a Sodoma mostrò invece di essere disposto a tollerare il loro stile di vita. Se Lot avesse avuto la personalità di uomo etico, avrebbe riconosciuto che non è sufficiente amare la giustizia e che bisogna anche saper condannare l’ingiustizia.
Donato Grosser
Tratto da: http://www.romaebraica.it/parasha-di-lekh-lekha-non-basta-amare-la-giustizia-bisogna-anche-condannare-lingiustizia/
Midrash Rabba 1720
In questa parashà viene raccontato l’episodio della separazione tra Avraham e suo nipote Lot e le tragiche conseguenze della decisione di Lot di scegliere Sodoma come residenza. A seguito di un litigio tra i pastori di Avraham e quelli di Lot, Avraham disse a Lot: “Evitiamo discordie tra noi due e tra i nostri pastori perché siamo parenti. Hai davanti a te tutto il paese, fammi il favore di separarti da me, se andrai a sinistra io andrò a destra, se andrai a destra io andrò a sinistra. E Lot alzò gli occhi e vide la valle del Giordano che prima che l’Eterno distruggesse Sodoma e Gomorra era tutta irrigata fino a Tzo’ar come il giardino dell’Eterno, come l’Egitto” (Bereshìt – Genesi, 13: 8-10). E poco più avanti è scritto che “gli abitanti di Sodoma erano assai malvagi e peccatori nei confronti dell’Eterno” (ibid., 13:13).
Rashì (Francia, 1040-1104) al versetto “Se andrai a sinistra io andrò a destra” commenta: “Ovunque andrai ad abitare non mi allontanerò da te e ti sarò da scudo e di supporto e così avvenne che fu raccontato ad Avraham che il suo parente era stato preso prigioniero” (ibid., 14:13-14).
Il Midràsh presenta delle spiegazioni ambivalenti a questo episodio che mettono in evidenza il dilemma nel quale si trovava Avraham. I sodomiti erano malvagi e Lot scelse proprio la loro città, attratto dalle ricchezze del posto. Il Midràsh Rabbà (Lekh Lekhà, 41:45, Ed. Amsterdam, 1720) commenta che nel scegliere Sodoma, Lot “si allontanò dall’Antico del Mondo [cioè dall’Eterno] affermando che non desiderava né Avraham né il suo Dio”. Nello stesso Midràsh è detto: “R. Yudà afferma: «Avraham nostro patriarca sollevò ira quando Lot, figlio di suo fratello, si separò da lui; il Santo Benedetto disse: ‘lui [Avraham] si accompagna a tutti e a Lot che è suo parente non si accompagna’»”.
D’altra parte, nello stesso passo midrashico un altro Maestro della Mishnà afferma: “Il Santo Benedetto si adirò [con Avraham] quando Lot andava insieme con il nostro patriarca Avraham. Il Santo Benedetto disse: «gli ho detto che ho dato questo paese alla sua discendenza e lui aggrega a se Lot figlio di suo fratello come erede; se è cosi, che vada a prendere due trovatelli dalla strada e li faccia ereditare come vuole fare con il figlio del fratello»”.
Il commento Yefè Toar al Midràsh Rabbà di R. Shemuel Yaffe Ashkenazi (Costantinopoli, 1525-1595), citato nell’opera antologica Me’am Lo’ez, racconta che in Cielo avvenne figurativamente una grande discussione tra l’Eterno e i gli angeli riguardo al comportamento di Avraham nei confronti del nipote Lot. Gli angeli sostenevano che Avraham era passibile di pena di morte perché si era accompagnato a Lot e per questo motivo la Presenza Divina [cioè la profezia] si era allontanata da Avraham per tutto il tempo in cui Lot era con lui. Nonostante ciò, quando Avraham disse a Lot di separarsi, il Santo Benedetto si adirò con lui e gli disse: “Anche se Lot è malvagio e non doveva starti a fianco, non dovevi porre una così grande separazione tra di voi dal sud al nord. Avresti dovuto tenertelo vicino e in questo modo avrebbe potuto vedere le tue buone azioni e tornare sulla retta via”. Il Me’am Lo’ez conclude che da qui si impara che bisogna avvicinare i parenti e non ignorarli anche se sono dei miserabili.
R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) nell’opera Divrè Haggadà (pp. 30-31) commenta che Lot seguì Avraham nei suoi viaggi perché sperava di diventarne l’erede. Tuttavia era certamente uno dei discepoli di Avraham, che fin da quando abitava a Charan insegnava che il mondo aveva un Creatore. Con tutto ciò Lot se ne andò ad abitare proprio a Sodoma, abbandonando il mondo spirituale di Avraham per quello materiale di Sodoma. Da qui si vede che fin dall’inizio Lot non era sincero. Per Avraham, Lot fu una grande delusione che gli fece perdere speranza di poter cambiare il mondo. Tanto è vero che quando il Re di Sodoma chiese ad Avraham di restituirgli i cittadini di Sodoma che Avraham aveva liberato insieme con Lot nella guerra contro i quattro Re, Avraham li restituì subito invece di cercare di tenerli presso di sé e di insegnare loro il monoteismo. Avraham venne criticato, perché non bisogna mai perdere la speranza di fare tornare qualcuno sulla retta strada.
R. Yosef Dov Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) nell’opera Massoret Harav (p. 83), soffermandosi sulla decisione di Lot di andare ad abitare a Sodoma, afferma che Lot era conscio della grandezza di Avraham tuttavia non voleva seguirne l’esempio. Lot capiva che la vita di Avraham era una vita di abnegazione che richiedeva difficoltà e sacrifici. Egli amava Avraham ma in Sodoma egli vedeva un altro modo di vivere: una vita confortevole senza sacrifici. Se fosse stato differente non sarebbe andato a stabilirsi a Sodoma; andando a Sodoma mostrò invece di essere disposto a tollerare il loro stile di vita. Se Lot avesse avuto la personalità di uomo etico, avrebbe riconosciuto che non è sufficiente amare la giustizia e che bisogna anche saper condannare l’ingiustizia.
Donato Grosser
Tratto da: http://www.romaebraica.it/parasha-di-lekh-lekha-non-basta-amare-la-giustizia-bisogna-anche-condannare-lingiustizia/
Il commento della settimana, la parashà di Lekh Lekhà – Abramo e la rinascita del monoteismo
Il Maimonide (Cordova, 1138-1205, il Cairo) nella sua opera Mishnè Torà, nel primo capitolo delle Hilkhòt Avodàt Kokhavìm (regole sull’idolatria) descrive come i discendenti di Adamo abbandonarono il monoteismo, come si svilupparono le credenze idolatriche e come il nostro patriarca Abramo fece rinascere il principio monoteista.
Ai tempi di Enòsh (figlio di Set e nipote di Adamo), che visse 905 anni, tra l’anno 235 e 1040 dalla Creazione del mondo, gli uomini commisero l’enorme errore di ritenere che fosse volontà divina onorare gli astri, così come un Re desidera che i suoi ministri vengano onorati.
Vennero costruiti templi al sole, alla luna e alle stelle e offerti loro sacrifici per ottenere la grazia divina. Questi uomini non negavano l’esistenza del Creatore, tuttavia con il passare del tempo quello che era stato un culto che si riteneva erroneamente in onore del Creatore, si trasformò in vera idolatria. Così, aggiunge il Maimonide, non rimasero che poche persone a conoscere il Creatore, come Chanòkh, Matusalemme, Noè, Sem ed ‘Ever, fino a quando nacque il nostro patriarca Abramo.
Abramo crebbe tra gli idolatri e arrivò gradualmente a comprendere che doveva esistere un Ente Supremo che controllava gli astri. Si rese conto dell’errore comune e di come il popolo fosse arrivato a questo errore. All’età di quarant’anni, avendo sviluppato il suo sistema di pensiero monoteista, iniziò a entrare in discussioni pubbliche nella sua città di Ur Kasdim e a dimostrare con prove inconfutabili l’errore degli idolatri. Passando all’azione distrusse le statue di suo padre, affermando pubblicamente che si doveva servire solo il Creatore del mondo e che le statue dovevano essere distrutte affinché il popolo non continuasse a commettere l’errore di adorare gli idoli. Le sue parole furono così convincenti che Nimrod, Re di Babilonia, decise di metterlo a morte gettandolo in una fornace. Salvatosi miracolosamente, lasciò Ur e andò a Charàn dove continuò a insegnare che nel mondo vi è un solo Dio. E così continuò fino a quando arrivò nella terra di Canaan “e là invocò il nome del Signore, Dio dell’Universo” (Genesi, 21:33).
Così facendo, aggiunge il Maimonide, Abramo raccolse seguaci “a migliaia e a decine di migliaia”. Li convinse della verità del monoteismo e della falsità dell’idolatria, compose libri e passò i suoi insegnamenti al figlio Isacco. Isacco proseguì l’opera del padre, passò l’insegnamento al figlio Giacobbe e continuò ad istruire coloro che lo seguivano. Giacobbe passò l’insegnamento ai figli, e mise a capo della sua scuola il figlio Levi affinché continuasse a insegnare le vie del Signore e a osservare le regole del patriarca Abramo. Giacobbe stabilì anche che i discendenti di Levi continuassero a condurre la sua scuola affinché la dottrina monoteista non andasse dimenticata. La famiglia si ingrandì e da essa nacque un popolo tutto monoteista.
Quando Abramo giunse nella terra di Canaan, Lot, suo nipote, si separò da lui e andò ad abitare a Sodoma. Fu preso prigioniero durante la guerra tra i Re di Mesopotamia e i Re della valle del Giordano (Bereshìt-Genesi, 14: 1-12). Il patriarca Abramo, inseguì con poco più di trecento uomini l’esercito di migliaia di uomini dei quattro Re, li sconfisse con un attacco notturno di sorpresa e liberò Lot e gli altri prigionieri di Sodoma (Genesi, 14:13-17).
Il Midràsh (Bereshìt Rabbà, 42:5) racconta che al ritorno di Abramo dalla battaglia, gli idolatri gli fecero un palco trionfale. Rav Eliashiv (1910-2012) a questo proposito commentò: quando Abramo rischiò la vita per la sua fede nell’Eterno e preferì essere gettato in una fornace piuttosto che rinunciare al monoteismo, nessuno gli fece un trionfo. Quando aprì la sua casa ai passanti e agli affamati, nessuno ci fece caso. Solo quando sbaragliò i nemici in battaglia gli fecero il trionfo. Questa è la filosofia dei popoli che sanno onorare solo la forza (Divrè Aggadà, p. 39).
Tratto da: http://www.romaebraica.it/parasha-lekh-lekha/
Il Maimonide (Cordova, 1138-1205, il Cairo) nella sua opera Mishnè Torà, nel primo capitolo delle Hilkhòt Avodàt Kokhavìm (regole sull’idolatria) descrive come i discendenti di Adamo abbandonarono il monoteismo, come si svilupparono le credenze idolatriche e come il nostro patriarca Abramo fece rinascere il principio monoteista.
Ai tempi di Enòsh (figlio di Set e nipote di Adamo), che visse 905 anni, tra l’anno 235 e 1040 dalla Creazione del mondo, gli uomini commisero l’enorme errore di ritenere che fosse volontà divina onorare gli astri, così come un Re desidera che i suoi ministri vengano onorati.
Vennero costruiti templi al sole, alla luna e alle stelle e offerti loro sacrifici per ottenere la grazia divina. Questi uomini non negavano l’esistenza del Creatore, tuttavia con il passare del tempo quello che era stato un culto che si riteneva erroneamente in onore del Creatore, si trasformò in vera idolatria. Così, aggiunge il Maimonide, non rimasero che poche persone a conoscere il Creatore, come Chanòkh, Matusalemme, Noè, Sem ed ‘Ever, fino a quando nacque il nostro patriarca Abramo.
Abramo crebbe tra gli idolatri e arrivò gradualmente a comprendere che doveva esistere un Ente Supremo che controllava gli astri. Si rese conto dell’errore comune e di come il popolo fosse arrivato a questo errore. All’età di quarant’anni, avendo sviluppato il suo sistema di pensiero monoteista, iniziò a entrare in discussioni pubbliche nella sua città di Ur Kasdim e a dimostrare con prove inconfutabili l’errore degli idolatri. Passando all’azione distrusse le statue di suo padre, affermando pubblicamente che si doveva servire solo il Creatore del mondo e che le statue dovevano essere distrutte affinché il popolo non continuasse a commettere l’errore di adorare gli idoli. Le sue parole furono così convincenti che Nimrod, Re di Babilonia, decise di metterlo a morte gettandolo in una fornace. Salvatosi miracolosamente, lasciò Ur e andò a Charàn dove continuò a insegnare che nel mondo vi è un solo Dio. E così continuò fino a quando arrivò nella terra di Canaan “e là invocò il nome del Signore, Dio dell’Universo” (Genesi, 21:33).
Così facendo, aggiunge il Maimonide, Abramo raccolse seguaci “a migliaia e a decine di migliaia”. Li convinse della verità del monoteismo e della falsità dell’idolatria, compose libri e passò i suoi insegnamenti al figlio Isacco. Isacco proseguì l’opera del padre, passò l’insegnamento al figlio Giacobbe e continuò ad istruire coloro che lo seguivano. Giacobbe passò l’insegnamento ai figli, e mise a capo della sua scuola il figlio Levi affinché continuasse a insegnare le vie del Signore e a osservare le regole del patriarca Abramo. Giacobbe stabilì anche che i discendenti di Levi continuassero a condurre la sua scuola affinché la dottrina monoteista non andasse dimenticata. La famiglia si ingrandì e da essa nacque un popolo tutto monoteista.
Quando Abramo giunse nella terra di Canaan, Lot, suo nipote, si separò da lui e andò ad abitare a Sodoma. Fu preso prigioniero durante la guerra tra i Re di Mesopotamia e i Re della valle del Giordano (Bereshìt-Genesi, 14: 1-12). Il patriarca Abramo, inseguì con poco più di trecento uomini l’esercito di migliaia di uomini dei quattro Re, li sconfisse con un attacco notturno di sorpresa e liberò Lot e gli altri prigionieri di Sodoma (Genesi, 14:13-17).
Il Midràsh (Bereshìt Rabbà, 42:5) racconta che al ritorno di Abramo dalla battaglia, gli idolatri gli fecero un palco trionfale. Rav Eliashiv (1910-2012) a questo proposito commentò: quando Abramo rischiò la vita per la sua fede nell’Eterno e preferì essere gettato in una fornace piuttosto che rinunciare al monoteismo, nessuno gli fece un trionfo. Quando aprì la sua casa ai passanti e agli affamati, nessuno ci fece caso. Solo quando sbaragliò i nemici in battaglia gli fecero il trionfo. Questa è la filosofia dei popoli che sanno onorare solo la forza (Divrè Aggadà, p. 39).
Tratto da: http://www.romaebraica.it/parasha-lekh-lekha/

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ESTRATTO DA BERESHIT RABBA
XLIII.
Quando Abramo udì che il suo fratello era stato condotto via prigioniero, organizzò i suoi uomini esperti nelle armi, servi nati nella sua casa, in numero di trecentodiciotto, e si diede all'inseguimento fino a Dan. Piombò sopra di loro di notte, lui con i suoi servitori, li sconfisse e proseguì l'inseguimento fino a Hoba, che è a settentrione di Damasco.
Recuperò così tutti i beni; recuperò anche Lot e i suoi beni, con le donne e il popolo.
Quando Abramo fu di ritorno, dopo la sconfìtta di Kedorlaomer e dei re ch'erano con lui, il re di Sodoma gli uscì incontro nella Valle di Shave, che è la valle del Re. Intanto Melchisedech, re di Shalem, offrì pane e vino, essendo sacerdote del Dio Altissimo. E lo benedisse con queste parole: «Sia benedetto Abramo dal Dio Altissimo, creatore del cielo e della terra, E benedetto sia il Dio Altissimo che ti ha dato nelle mani i tuoi nemici».
E Abramo gli diede la decima di tutto.
Poi il re di Sodoma disse ad Abramo: «Dammi le persone: i beni prendili pure per te». Ma Abramo disse al re di Sodoma: «Alzo le mani davanti a YHWH, il Dio Altissimo, creatore del cielo e della terra: né un filo, né una correggia di calzare, niente io prenderò di quello che è tuo; e non potrai dire: sono io che ho arricchito Abramo.
Per me niente, tranne quello che i servitori hanno mangiato; quanto alla parte spettante agli uomini che sono venuti con me, Eshkol, Aner e Mamre, si prendano essi stessi la loro parte» (Gen. 14, 14-24).
1. Ed udì Abramo che era stato fatto prigioniero il suo parente (Gen. 14, 14). Di una cattiva notizia... ALTRO
Quando Abramo udì che il suo fratello era stato condotto via prigioniero, organizzò i suoi uomini esperti nelle armi, servi nati nella sua casa, in numero di trecentodiciotto, e si diede all'inseguimento fino a Dan. Piombò sopra di loro di notte, lui con i suoi servitori, li sconfisse e proseguì l'inseguimento fino a Hoba, che è a settentrione di Damasco.
Recuperò così tutti i beni; recuperò anche Lot e i suoi beni, con le donne e il popolo.
Quando Abramo fu di ritorno, dopo la sconfìtta di Kedorlaomer e dei re ch'erano con lui, il re di Sodoma gli uscì incontro nella Valle di Shave, che è la valle del Re. Intanto Melchisedech, re di Shalem, offrì pane e vino, essendo sacerdote del Dio Altissimo. E lo benedisse con queste parole: «Sia benedetto Abramo dal Dio Altissimo, creatore del cielo e della terra, E benedetto sia il Dio Altissimo che ti ha dato nelle mani i tuoi nemici».
E Abramo gli diede la decima di tutto.
Poi il re di Sodoma disse ad Abramo: «Dammi le persone: i beni prendili pure per te». Ma Abramo disse al re di Sodoma: «Alzo le mani davanti a YHWH, il Dio Altissimo, creatore del cielo e della terra: né un filo, né una correggia di calzare, niente io prenderò di quello che è tuo; e non potrai dire: sono io che ho arricchito Abramo.
Per me niente, tranne quello che i servitori hanno mangiato; quanto alla parte spettante agli uomini che sono venuti con me, Eshkol, Aner e Mamre, si prendano essi stessi la loro parte» (Gen. 14, 14-24).
1. Ed udì Abramo che era stato fatto prigioniero il suo parente (Gen. 14, 14). Di una cattiva notizia... ALTRO
SPIEGAZIONI CRISTIANE SU LEKH LEKHA
« LEKH LEKHÀ, VA’ NEL TERRITORIO DI MORIA ... »:
la prova di Abramo
«Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli nulla! Perché ora io so che temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito!».
(Genesi 22,12)
« Le parole della Torah sono come un martello che frantuma la roccia: esse si scindono in molti significati (Scinhedrin 34a). La massima del Talmud si applica pienamente al racconto di Genesi 22, già a partire dalle prime parole. Infatti, il termine ebraico davar - in relazione al contesto – può essere reso nella nostra lingua con “parola”, “cosa”, o avvenimento. Nel nostro contesto è preferibile leggere « Dopo questi avvenimenti (haddevarim), Dio mise alla prova Abramo ». Dopo la prima chiamata - lek lekhà - ed il primo “eccomi”, la fede di Abramo è stata messa alla prova di una lunga attesa. Ora che l’attesa si è compiuta e la promessa si è realizzata, con il dono “impossibile” di Isacco, arriva l’ultimo e più decisivo lek lekhà: « và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò ». Con il primo lek lekhà Abramo rompe con il suo passato, ora è chiamato a mettere in gioco tutto il suo futuro: la promessa, la benedizione, il sogno di diventare una grande nazione. La grazia del Signore, come dirà Bonhoeffer, è grazia “a caro prezzo”.
Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo! “. Rispose: “Eccomi! “. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi servi: “Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi”. Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt’e due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: “Padre mio! “. Rispose: “Eccomi, figlio mio”. Riprese: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l ’olocausto? “ .
Abramo rispose: “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio! “. Proseguirono tutt’e
due insieme; Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo! “. Rispose: “Eccomi! “. L ’angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”.
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo: “Il Signore provvede”, perciò oggi si dice: “Sul monte il Signore provvede”.
Poi l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”.
Poi Abramo tornò dai suoi servi; insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abramo abitò a Bersabea. (Genesi 22,1-3).
I “molti significati del racconto” sono stati colti dai commentatori ebraici e cristiani in modo molto diverso.
Rashi e il Nachmanide - i maggiori commentatori ebraici medievali - cercano di attenuare l’orrore che istintivamente suscita l’idea che un padre possa sacrificare il figlio per obbedire ad un ordine del Signore. Sottolineano in particolare che nel racconto di Genesi 22 non si tratta del “sacrificio” ma della aqedà (legatura) di Isacco: fallo salire là (in olocausto) - Dio non gli disse: «Immolalo ». Infatti, il Santo, benedetto Egli sia, non voleva che Abramo immolasse Isacco, ma soltanto che lo facesse salire sul monte, per prepararlo come suo olocausto. E dopo che lo ebbe fatto salire, Dio gli disse di farlo scendere. (RASHI,
Commento alla Genesi).
E Dio provò Abramo - ... quando Egli sa che un giusto farà la sua volontà, ed Egli lo vuole giustificare, allora lo mette ala prova. Ma gli empi, che non gli obbediscono, non li mette alla prova. Perciò tutte le prove raccontate dalla Torah parlano a favore di colui che viene messo alla prova.
(Nahmanide).
André Neher, filosofo ebreo contemporaneo, rifiuta le spiegazioni di comodo dei commentatori medievali:
Piaccia o no a Nahmanide, nella Bibbia esistono delle prove che falliscono. A meno che non si precisi che noi la leggiamo male, che occorre interpretare, leggere tra le righe, che esseri che credevamo morti non sono veramente morti, che la follia non è follia, e il male non è il male ma una variante del bene.
Ed è proprio questo che pretende Nahmanide quando si trova — come noi adesso — di fronte all’uomo biblico la cui prova — se di prova si può parlare — fu geometricamente e strutturalmente agli antipodi di quella di Abramo: intendo dire l’uomo Giobbe. (ANDRÉ NEHER, L ’esilio della parola).
Egli interpreta piuttosto il racconto dal punto di vista del «silenzio di Dio». Alla luce – ma sarebbe il caso di dire nelle tenebre - della Shoà. Il suo scopo è quello di «stabilire un rapporto organico tra i due temi del Silenzio e della Bibbia: «Dio tace mentre tutto chiama la sua voce. E il celebre caso di Abramo sul monte Moria, illuminato da tutti i punti di vista dalle famose analisi di Kierkegaard.»:
La citazione di Kierkegaard ci introduce nella prospettiva dei commentatori cristiani, che parlano piuttosto del “sacrificio” di Isacco. Soren Kierkegaard sottolinea in modo particolare il silenzio di Abramo, rotto solo dal drammatico dialogo con il figlio, e lo interpreta nella prospettiva di una fede paradossale, irriducibile agli schemi abituali di un “sistema” filosofico, della “religione” o dell’“estetica”. Una fede che non può essere “oltrepassata”, se non al prezzo della disperazione.
Per mettere un po’ d’ordine nel conflitto delle interpretazioni chiediamo ancora una volta l’aiuto del card. Martini:
Che cosa faremo allora noi davanti a tante interpretazioni? Io propongo semplicemente qualche riflessione, prima di tutto sulla prova di Abramo e poi sulle nostre prove che conosciamo meglio di quella di Abramo [...] La prova è sul timore di Dio, su come Abramo accoglie il Dio della salvezza, il Dio della libera iniziativa e della promessa da cui ormai dipende la sua vita.
Abramo aveva creduto di capire di Dio qualcosa di più: è il Dio della promessa, il Dio che lo conduce, anche se non lo vede, il Dio che gli prepara una terra, gli prepara un popolo, ecco finalmente il figlio; è il Dio della bontà, della giustizia, della verità, della pienezza; ma a un certo momento sembra che tutto rimetta di nuovo in questione. Ad Abramo è richiesto un nuovo salto nella conoscenza di Dio.
Che cosa c’è allora positivamente nella mossa di Abramo? Mi pare che c’è semplicemente questo: la prova di Abramo è, come ogni prova seria, un mettere l’uomo di fronte al caso limite, dove l’uomo mostra veramente ciò che è, ciò che c’è in lui. Un po’ come Giobbe: Giobbe portato al caso limite mostra ciò che è. Cos’è questo caso limite? È una provocazione fin quasi all’impossibilità in assoluto.
(CARLO MARIA MARTINI, Abramo, nostro padre nella fede, Borla, 1983, pag. 121-142. Il libro è ancora reperibile nelle librerie cattoliche).
La meditazione del card. Martini prosegue invitando a confrontare la prova di Abramo con le nostre prove. Dietrich Bonhoeffer, in una lettera scritta nell’agosto 1944 all’amico Bethge, interpreta la prova di Abramo come tensione tra benedizione e croce:
Il concetto teologico che nell’Antico Testamento media tra Dio e la felicità ecc. dell’uomo, per quello che riesco a vedere, è quello di benedizione. Certo, nell’Antico Testamento, ad esempio per i Patriarchi, non si tratta di felicità, ma della benedizione di Dio, che racchiude in sé tutti i beni della terra. Questa benedizione è la rivendicazione della vita terrena per Dio, e contiene in sé tutte le promesse. Sarebbe ancora in sintonia con l’abituale interpretazione spiritualizzata del Nuovo Testamento considerare la benedizione veterotestamentaria superata dal Nuovo Testamento. [... ] Per il resto, anche nell’Antico Testamento colui che è stato benedetto deve soffrire molto (Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe), ma questo non conduce mai (e lo stesso vale per il Nuovo Testamento) a porre in contrapposizione assoluta felicità e sofferenza, ovvero benedizione e croce. La differenza tra l’Antico e il Nuovo Testamento sta solo nel fatto che nell’Antico la benedizione racchiude in sé anche la croce, nel Nuovo la croce racchiude in sé anche la benedizione. (DIETRICH BONHOEFFER, Resistenza e resa).
Ognuno di noi conosce le prove che il Signore gli ha riservato, personalmente o attraverso le persone che ci stanno vicino. Quanto a me, devo ringraziare il Signore per il fatto che fin’ora non mi ha chiesto prove superiori alle mie forze. Posso solo chiedere, come Gesù ci ha insegnato: non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male!. La mia vita è nelle tue mani, Amen, mi fido di te.
la prova di Abramo
«Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli nulla! Perché ora io so che temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito!».
(Genesi 22,12)
« Le parole della Torah sono come un martello che frantuma la roccia: esse si scindono in molti significati (Scinhedrin 34a). La massima del Talmud si applica pienamente al racconto di Genesi 22, già a partire dalle prime parole. Infatti, il termine ebraico davar - in relazione al contesto – può essere reso nella nostra lingua con “parola”, “cosa”, o avvenimento. Nel nostro contesto è preferibile leggere « Dopo questi avvenimenti (haddevarim), Dio mise alla prova Abramo ». Dopo la prima chiamata - lek lekhà - ed il primo “eccomi”, la fede di Abramo è stata messa alla prova di una lunga attesa. Ora che l’attesa si è compiuta e la promessa si è realizzata, con il dono “impossibile” di Isacco, arriva l’ultimo e più decisivo lek lekhà: « và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò ». Con il primo lek lekhà Abramo rompe con il suo passato, ora è chiamato a mettere in gioco tutto il suo futuro: la promessa, la benedizione, il sogno di diventare una grande nazione. La grazia del Signore, come dirà Bonhoeffer, è grazia “a caro prezzo”.
Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo! “. Rispose: “Eccomi! “. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi servi: “Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi”. Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt’e due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: “Padre mio! “. Rispose: “Eccomi, figlio mio”. Riprese: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l ’olocausto? “ .
Abramo rispose: “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio! “. Proseguirono tutt’e
due insieme; Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo! “. Rispose: “Eccomi! “. L ’angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”.
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo: “Il Signore provvede”, perciò oggi si dice: “Sul monte il Signore provvede”.
Poi l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”.
Poi Abramo tornò dai suoi servi; insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abramo abitò a Bersabea. (Genesi 22,1-3).
I “molti significati del racconto” sono stati colti dai commentatori ebraici e cristiani in modo molto diverso.
Rashi e il Nachmanide - i maggiori commentatori ebraici medievali - cercano di attenuare l’orrore che istintivamente suscita l’idea che un padre possa sacrificare il figlio per obbedire ad un ordine del Signore. Sottolineano in particolare che nel racconto di Genesi 22 non si tratta del “sacrificio” ma della aqedà (legatura) di Isacco: fallo salire là (in olocausto) - Dio non gli disse: «Immolalo ». Infatti, il Santo, benedetto Egli sia, non voleva che Abramo immolasse Isacco, ma soltanto che lo facesse salire sul monte, per prepararlo come suo olocausto. E dopo che lo ebbe fatto salire, Dio gli disse di farlo scendere. (RASHI,
Commento alla Genesi).
E Dio provò Abramo - ... quando Egli sa che un giusto farà la sua volontà, ed Egli lo vuole giustificare, allora lo mette ala prova. Ma gli empi, che non gli obbediscono, non li mette alla prova. Perciò tutte le prove raccontate dalla Torah parlano a favore di colui che viene messo alla prova.
(Nahmanide).
André Neher, filosofo ebreo contemporaneo, rifiuta le spiegazioni di comodo dei commentatori medievali:
Piaccia o no a Nahmanide, nella Bibbia esistono delle prove che falliscono. A meno che non si precisi che noi la leggiamo male, che occorre interpretare, leggere tra le righe, che esseri che credevamo morti non sono veramente morti, che la follia non è follia, e il male non è il male ma una variante del bene.
Ed è proprio questo che pretende Nahmanide quando si trova — come noi adesso — di fronte all’uomo biblico la cui prova — se di prova si può parlare — fu geometricamente e strutturalmente agli antipodi di quella di Abramo: intendo dire l’uomo Giobbe. (ANDRÉ NEHER, L ’esilio della parola).
Egli interpreta piuttosto il racconto dal punto di vista del «silenzio di Dio». Alla luce – ma sarebbe il caso di dire nelle tenebre - della Shoà. Il suo scopo è quello di «stabilire un rapporto organico tra i due temi del Silenzio e della Bibbia: «Dio tace mentre tutto chiama la sua voce. E il celebre caso di Abramo sul monte Moria, illuminato da tutti i punti di vista dalle famose analisi di Kierkegaard.»:
La citazione di Kierkegaard ci introduce nella prospettiva dei commentatori cristiani, che parlano piuttosto del “sacrificio” di Isacco. Soren Kierkegaard sottolinea in modo particolare il silenzio di Abramo, rotto solo dal drammatico dialogo con il figlio, e lo interpreta nella prospettiva di una fede paradossale, irriducibile agli schemi abituali di un “sistema” filosofico, della “religione” o dell’“estetica”. Una fede che non può essere “oltrepassata”, se non al prezzo della disperazione.
Per mettere un po’ d’ordine nel conflitto delle interpretazioni chiediamo ancora una volta l’aiuto del card. Martini:
Che cosa faremo allora noi davanti a tante interpretazioni? Io propongo semplicemente qualche riflessione, prima di tutto sulla prova di Abramo e poi sulle nostre prove che conosciamo meglio di quella di Abramo [...] La prova è sul timore di Dio, su come Abramo accoglie il Dio della salvezza, il Dio della libera iniziativa e della promessa da cui ormai dipende la sua vita.
Abramo aveva creduto di capire di Dio qualcosa di più: è il Dio della promessa, il Dio che lo conduce, anche se non lo vede, il Dio che gli prepara una terra, gli prepara un popolo, ecco finalmente il figlio; è il Dio della bontà, della giustizia, della verità, della pienezza; ma a un certo momento sembra che tutto rimetta di nuovo in questione. Ad Abramo è richiesto un nuovo salto nella conoscenza di Dio.
Che cosa c’è allora positivamente nella mossa di Abramo? Mi pare che c’è semplicemente questo: la prova di Abramo è, come ogni prova seria, un mettere l’uomo di fronte al caso limite, dove l’uomo mostra veramente ciò che è, ciò che c’è in lui. Un po’ come Giobbe: Giobbe portato al caso limite mostra ciò che è. Cos’è questo caso limite? È una provocazione fin quasi all’impossibilità in assoluto.
(CARLO MARIA MARTINI, Abramo, nostro padre nella fede, Borla, 1983, pag. 121-142. Il libro è ancora reperibile nelle librerie cattoliche).
La meditazione del card. Martini prosegue invitando a confrontare la prova di Abramo con le nostre prove. Dietrich Bonhoeffer, in una lettera scritta nell’agosto 1944 all’amico Bethge, interpreta la prova di Abramo come tensione tra benedizione e croce:
Il concetto teologico che nell’Antico Testamento media tra Dio e la felicità ecc. dell’uomo, per quello che riesco a vedere, è quello di benedizione. Certo, nell’Antico Testamento, ad esempio per i Patriarchi, non si tratta di felicità, ma della benedizione di Dio, che racchiude in sé tutti i beni della terra. Questa benedizione è la rivendicazione della vita terrena per Dio, e contiene in sé tutte le promesse. Sarebbe ancora in sintonia con l’abituale interpretazione spiritualizzata del Nuovo Testamento considerare la benedizione veterotestamentaria superata dal Nuovo Testamento. [... ] Per il resto, anche nell’Antico Testamento colui che è stato benedetto deve soffrire molto (Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe), ma questo non conduce mai (e lo stesso vale per il Nuovo Testamento) a porre in contrapposizione assoluta felicità e sofferenza, ovvero benedizione e croce. La differenza tra l’Antico e il Nuovo Testamento sta solo nel fatto che nell’Antico la benedizione racchiude in sé anche la croce, nel Nuovo la croce racchiude in sé anche la benedizione. (DIETRICH BONHOEFFER, Resistenza e resa).
Ognuno di noi conosce le prove che il Signore gli ha riservato, personalmente o attraverso le persone che ci stanno vicino. Quanto a me, devo ringraziare il Signore per il fatto che fin’ora non mi ha chiesto prove superiori alle mie forze. Posso solo chiedere, come Gesù ci ha insegnato: non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male!. La mia vita è nelle tue mani, Amen, mi fido di te.
IL SACRIFICIO DEL FIGLIO DI ABRAMO NELL'ISLAM
Anche il Corano contiene il racconto del sacrificio del figlio amato, della fede esemplare di Abramo e del figlio; citiamone la fine: "Dopo che tutti e due si furono sottomessi (islam) e che Abramo ebbe adagiato il figlio con la fronte verso la terra, Noi lo chiamammo: "Oh Abramo! Tu hai creduto in questa visione e l'hai realizzata. E' così che noi ricompensiamo coloro che fanno il bene. Ecco la prova concludente". Noi abbiamo riscattato suo figlio con un sacrificio solenne" (Sura 37, vv. 99-112). Il figlio non viene nominato e la tradizione successiva vi vedrà Ismaele (l'antenato delle tribù arabe) e non Isacco. Questo sacrificio del montone viene rinnovato ogni anno in occasione della Grande Festa (Aid el kebir)."
Possiamo contemplare nella storia di Abramo la potenza dell'agire divino attraverso le quali ci porta via da noi stessi verso il nostro vero sé che solo nella vicinanza infinita di Dio trova la sua realizzazione. Nello stesso momento questa esperienza universale dell'essere e diventare immagine di Dio diventa la casa dalla quale e nella quale cristiani, ebrei e musulmani trovano la loro origine e la modalità della loro realizzazione.
Possiamo contemplare nella storia di Abramo la potenza dell'agire divino attraverso le quali ci porta via da noi stessi verso il nostro vero sé che solo nella vicinanza infinita di Dio trova la sua realizzazione. Nello stesso momento questa esperienza universale dell'essere e diventare immagine di Dio diventa la casa dalla quale e nella quale cristiani, ebrei e musulmani trovano la loro origine e la modalità della loro realizzazione.