LE DIVISIONI INTERNE AL MONDO ISLAMICO
Introduzione
La sottomissione a Dio, l'imitazione del profeta Muhammad e la proclamazione della professione di fede (shahāda) fanno entrare nella comunità dei credenti. Chi accolta totalmente il Corano. il ruolo profetico di Muhammad e la sunna è un musulmano.
Parlando di scismi o di divisioni all'interno del mondo islamico, ci si allontana profondamente dalla concezione che il mondo occidentale e cristiano ha di questi termini. Paolo Branca afferma in proposito «Si parla tanto di "sette" islamiche, ma a rigore di termini è questa un'espressione che non si dovrebbe usare.
Non ci sono cioè nell'islam delle vere e proprie sette scismatiche o ereticali, se con questa espressione intendiamo gruppi che si distaccano da un'autorità costituita o dissentono su punti essenziali della dottrina. Un'autorità religiosa centrale infatti nell'Islàm non esiste, ma vige al suo posto il principio del consenso della comunità o almeno dei dotti, senza però che a questi termini sia data in alcun modo un'investitura ufficiale né gli strumenti per imporre una loro particolare interpretazione della religione al di fuori del grande solco tracciato dal Corano e dalla Sunna del Profeta. L'autorità ritenuta illegittima dai gruppi dissidenti è sempre stata quella politica piuttosto che quella religiosa, poiché quest'ultima di fatto non c'è. L'assenza di un'autorità religiosa porta con sé la mancanza di autentici dogmi: esistono cioè delle verità fondamentali che, in buona sostanza, si riducono ai due enunciati della professione di fede islamica (shahāda), ma il musulmano non è incline a troppo ardite costruzioni speculative sul mistero divino, né vedrebbe volentieri il suo credo affidato ai canali di trasmissione e di propagazione che non fossero il lento e maestoso fiume della tradizione».
Pur essendo vero che all'interno dell'Islàm sono venute a crearsi numerose divisioni, occorre tuttavia premettere una grande distinzione fra l'Islàm ufficiale e l'Islàm dichiarato assolutamente illegale. Nel primo vanno inseriti coloro che hanno l'accesso al pellegrinaggio alla Mecca, nel secondo coloro a cui il pellegrinaggio alla Mecca e ufficialmente vietato. Il primo gruppo si suddivide poi in molte scuole teologiche, giuridiche e in molte tradizioni che di volta in volta si sono venute a creare nel corso della storia.
L'Islàm non e uno. Come ha ben evidenzialo Henri Laoust, «dalla morte del Profeta, che si suole collocare 1'8 giugno 632 a Medina ove fu sepolto, l'Islàm ha cominciato a ramificarsi in fazioni, gruppi e tendenze: non vere e proprie sette, ma famiglie spirituali e scuole, che spesso si sono combattute più o meno duramente, ma che allo stesso tempo si sono definite proprio le une in apporto alle altre.
Molte sono scomparse nel corso della storia e altre estinzioni sono tuttora possibili, come resta possibile la nascita di nuove formulazioni dottrinali». In questa sede non si considera come una vera e propria divisione nell'Islàm la distinzione fra -Islàm delle moschee- e « Islàm delle confraternite». Le confraternite e il sufismo - la «mistica» islamica che vive spesso all'interno di esse - costituiscono un fenomeno trasversale rispetto alla divisione principale fra sunniti e sciiti.
La battaglia e l'arbitralo di Siffin (657 d.C.) rappresentano il momento centrale e culminante del dissidio all'interno della prima comunità islamica. Di qui nasce la divisione in sunniti, sciiti e kharijiti, ancora oggi più che mai valida.
1. Sunniti
Il sunnismo è diventato il filone dominante nel mondo islamica. Malgrado la larghissima diffusione geografica, la comunità sunnita ha mantenuto un'unità interna che né le divisioni in quattro scuole giuridico-filosofiche né i movimenti riformisti più recenti hanno potuto intaccare. Mentre lo sciismo ha dato vita a numerosi sottogruppi, soltanto l'ahmadismo e, in maniera molto indiretta, il sikhismo, una religione che nasce dall'incontro fra l'Islàm e l'induismo) sono sorti dal tronco sunnita.
Il sunnismo oggi raggruppa circa l’85% dei musulmani, si estende in un blocco piuttosto compatto dalla Mauritania alla Turchia e tende ad avanzare sempre di più nell'Africa nera. In Asia orientale la tenuta del sunnismo è discontinua, ma comprende i paesi musulmani più popolosi (Indonesia. India, Pakistan, Bangladesh. Malesia, Asia centrale). In America, il sunnismo, già presente nelle comunità immigrate, si è sviluppato presso i neri americani, ma in forme spesso eterodosse. Nei Balcani esistono alcune comunità sunnite, ultimi residui dell'impero ottomano, mentre l'immigrazione maghrebina, turca e pakistana ha introdotto il sunnismo in Europa occidentale. Le «Repubbliche musulmane» dell'ex-Unione Sovietica, in forte espansione demografica, sono sunnite ad eccezione dell'Azerbaijan e degli ismailiti del Pamir.
I sunniti si suddividono secondo vari «riti» o «scuole», che ammettono però gli stessi princìpi fondamentali e non differiscono che in alcune particolarità rituali e giuridiche.
La comunità sunnita dovrebbe essere guidata da un califfo (khalifā). Simbolo della sua unità. Al termine califfo, che ha il significato di «successore o «vicario», è stato sovente sostituito quello di imam. Quest'ultimo è usato soprattutto nei saggi di giurisprudenza.
I primi quattro successori di Muhammad sono considerati dei «ben guidati» e occupano un posto del tutto particolare nella lista dei califfi. Ognuno di loro è chiamato «vicario dell'Inviato di Dio» (khalifat Rasūli Llāh), mentre a partire dagli Omayyadi, e poi sotto gli Abbasidi, i vari califfi si sono dati il titolo di «vicario di Dio» (khalifat Allah). I primi quattro coprono un periodo di una trentina d'anni (632-661 ) spesso considerato come l'età d'oro dell'Islàm. Soprattutto durante il primo periodo, il califfo o imam è il capo supremo di tutti i credenti, simile a un monarca di diritto divino. Questo si realizza soprattutto sotto la dinastia omayyade e durante il primo periodo di quella abbassìde. In seguito, a partire dall'850, con l'inserimento di forti comunità lurche e poi ancora con l'arrivo dei Buyidi, il potere del califfo diminuisce sempre di più. Con l'avvento dei Selgiuchidi nel XII e XIII secolo, il califfo giunge a rappresentare soltanto un'autorità morale, anche se non si può dimenticare ciò che Muhammad avrebbe detto: «È meglio per la comunità vivere sessantanni sotto un califfo ingiusto che una notte sola senza califfo». Secondo un altro hadīth, «il credente che muore senza conoscere il proprio califfo, muore come se fosse vissuto ai tempi preislamici».
Sotto al califfo, emiri e visir avevano dei poteri generali concernenti le province dell'impero. Potevano diventare estremamente potenti, poiché controllavano le finanze di queste regioni, fino a ottenere talvolta anche una certa indipendenza. Accanto a questi vi era ancora la figura del muhtasib, il funzionario pubblico nominato dal califfo, il quale aveva il dovere di far applicare e rispettare le
leggi e i doveri religiosi, come ad esempio la preghiera del venerdì o il digiuno di ramadan.
Occorre poi considerare la figura del muftī, il giurista conoscitore del diritto coranico. Il credente può consultare dei giuristi che danno delle risposte sotto forma di sentenze o fautwa (plurale di fatwā) che spesso, conservate sotto forma di raccolte, costituiscono un precedente a cui potersi appellare. La figura del muftī gode di particolare considerazione all'interno del rito malikita.
Vanno anconi menzionati lo shaykh, o anziano, che custodisce la moschea; il qād, il giudice che applica la legge ai casi concreti e davanti a cui ci si sposa; il 'ālim (singolare del più noto 'ulamā') o interprete della legge.
Un'ultima considerazione dev'essere fatta sulla figura dell'imām ovvero di colui che guida la preghiera del venerdì all'interno della moschea. In questo caso l'imām è semplicemente un fedele che, dotato di particolare conoscenza del Corano e di buone capacità oratorie, aiuta i suoi fratelli nella fede a lodare Dio, a ricordare i doveri del credente e ad impegnarsi in un sincero cammino di miglioramento della propria vita. Nell'organizzazione sunnita il ruolo dell' imām - secondo questa accezione del termine, che non va confusa con quella precedentemente evocata di imām come califfo - può essere coperto da qualsiasi fedele purché dotato delle necessarie conoscenze.
2. Sciiti
a) Caratteri peculiari della shī'a
Secondo gli sciiti il califfato spettava ad 'Alī perché questa era la volontà di Muhammad espressa in un hadīth ignorato dai sunniti. Narra questo hadīth che, dopo il «pellegrinaggio da Dio», mentre Muhammad faceva ritorno a Medina, si fermò a Ghadir Khumm, il 18 di dhū l-hijja, per annunciare una rivelazione. Prendendo la mano di 'Alī, Muhammad disse: «Non sono io più caro ai credenti che la loro stessa vita?». Tutti risposero: «Sì. Inviato di Dio». Allora dichiarò: «Chiunque riconosce me come suo maestro, riconoscerà 'Alī come suo maestro». Il racconto continua poi citando un'altra istruzione di Muhammad: «Il più gran tesoro è il libro di Dio; l'altro tesoro è la linea dei miei discendenti, la Gente della mia Casa». Gli sciiti, o 'alidi, derivano dunque il proprio nome dall'essere stati un partito (shī'a) a sostegno di 'Alī e della sua dignità di successore di Muhammad.
Premesso questo indispensabile cenno storico, ci si può chiedere quale potrebbe essere il criterio per identificare come «eretica» o «scismatica» la corrente sciita rispetto a quella sunnita. In realtà un criterio non esiste. Gli sciiti riconoscono le stesse verità fondamentali dei sunniti e gli stessi pilastri della fede come pratiche obbligatone per il fedele.
Volendo evidenziare qualche punto di dissenso si può prendere ad esempio l'ijmā' (consenso della comunità), a cui gli sciiti conferiscono un valore minore rispetto ai sunniti, preterendogli l'autorità personale di un imam docente. Un altro punto di differenziazione è il valore peculiare dato dallo sciismo alla sofferenza, al martirio, che vi assume un carattere quasi redentivo. Un terzo elemento distintivo è il fatto che gran parte della shī'a adottò la teologia mu'tazilita e quindi, nell'interpretazione del Corano, fa anche uso del ta'wīl (trasposizione spirituale delle sure coraniche poco amata dai sunniti).
Ai requisiti che l'ortodossia sunnita ritiene necessari per la scelta del califfo o imām, gli sciiti aggiungono la discendenza da 'Alī e negano del tutto il principio di elezione. La dignità dell'imām si trasmette per nass (designazione), atto con il quale il padre designa il figlio che deve succedergli. L'imām, che presso gli sciiti assume un ruolo quasi trascendente, ben al di là delle caratteristiche che alla figura del califfo avevano attribuito i sunniti, è il solo conoscitore del senso intimo dell'Islàm, comunicato direttamente da Muhammad a 'Alī e da questi ai suoi discendenti, ed ha l'autorità docente obbligatoria e definitiva nell'interpretazione del Corano e della sunna. All'imām riconosciuta anche la 'isma, cioè l'infallibilità e l'impeccabilità.
Sono particolarmente venerati i «Cinque Puri», cioè la Sacra Famiglia: Muhammad, sua figlia Fatima, suo cugino e genero 'Alī e i due figli di Fatima e di 'Alī, Hasan (624-670) e il già citato Husayn. Estremamente importante è poi la venerazione per la figura femminile di Fatima: la nascita dei suoi due figli sarebbe miracolosa (Fatima li avrebbe generati rimanendo vergine, con un parto dall'ombelico) e il culto particolare di cui Fatima è oggetto conferisce all'Islàm sciita un aspetto più ingentilito.
L'imām e in generale i «Cinque Puri» hanno inoltre per la fede sciita un'importante funzione, quella di «mediatori» presso Dio. Il potere d'intercessione che nella religiosità sunnita è attribuito solo al Profeta, nella shī'a è una vera e propria mediazione svolta da tutti gli imām, tanto che nella salāt (la preghiera rituale) vengono inserite particolari formule d'invocazione rivolte a loro. Il personaggio più potente in questo senso è Husayn ucciso dagli Omayyadi dopo l'eroica lotta a Karbalā' (nell'attuale Iraq), presso il fiume Tigri, nel 680.
1ᵃ battaglia di Karbalā' fa di Husayn un eroe (anche per i sunniti), capace di un libero sacrificio per la salvezza dei musulmani. Un altro elemento è così introdotto nell'Islàm sciita: la rivalutazione del dolore, della sofferenza e della sconfitta come fatto religiosamente positivo In qualche modo questo elemento è collegato a un ulteriore aspetto dell'imamologia sciita, quello della «scomparsa» (ghayba) dell'ultimo imām - causa di sofferenza per la comunità, ma nello stesso tempo misteriosamente preordinata da Dio - su cui torneremo. L'idea di un ritorno alla fine dei tempi dell'ultimo imām che è entrato in «occultamento» ed è «nascosto» si sovrappone al tema del mahdī (il ben guidato), un personaggio destinato a prendere la guida dei credenti, nel tempo della fine, presente anche nell'escatologia dell'Islàm ortodosso sunnita. benché poco accentualo. Nella shī'a il mahdī escatologico è identificalo con l'imām nascosto. I vari rami della shī'a si distinsero storicamente per questioni di legittima successione degli imām: chi negava l'imamato di un successore sospetto, fermava la catena di discendenza all'imām precedente, la cui morte era allora una «scomparsa» o «occultamento». Altri continuavano la serie finché per un motivo o per l'altro dovevano fermarsi, ammettendo la scomparsa di un altro imām.
Altre prescrizioni possono riguardare il «ritiro spirituale» di almeno tre giorni e tre notti, non obbligatorio, ma raccomandato e da osservarsi solo in una di queste quattro moschee: Mecca. Medina. Kūfa e Bassora. Vi è inoltre l'uso di astenersi dai rapporti sessuali e dai profumi per adempiere ad un voto. Caratteristica del diritto matrimoniale sciita (secondo la scuola giuridica ja'farita) è la cosiddetta mu'ta o matrimonio temporaneo, che si differenzia da quello normale perché limitato nel tempo. Tale genere di matrimonio è considerato dal sunnismo assolutamente illecito. Una prescrizione, non ristretta agli sciiti, ma certo particolarmente utilizzata da loro è la taqiyya, secondo la quale il fedele non solo è esortato, ma obbligato a nascondere, con restrizione mentale, o dissimulare le proprie credenze in caso di pericolo o di danno per la comunità.
b) Storia della shī'a
Tutti gli sciiti furono d'accordo nel riconoscere gli stessi imām fino a 'Alī Zayn (?-715). In seguito un gruppo di loro non riconobbe come legittimo successore Muhammad al-Bāqir (688-732). Riconobbe invece suo fratello Zayd (7-740), da non confondere con l'omonimo redattore del Corano nel VII secolo, uomo valoroso che morì combattendo contro gli Omayyadi per far valere il proprio diritto al califfato. Questo gruppo è conosciuto con il nome di zayditi.
Gli altri sciiti continuarono a riconoscere i medesimi califfi sino a Ja'far al Sādiq (700-765). Questo califfo aveva in un primo tempo designato a succedergli il figlio Ismāʽīl (7-762), che tuttavia entrò in contrasto con il padre e comunque morì prima di lui. Alla sua morte scoppiò quindi una crisi di successione, risolta da alcuni in favore del figlio minore di Ja'far. Mūsā al-Kāzim (745-799). Un gruppo di sciiti tuttavia non riconobbe né Mūsā né gli altri pretendenti, considerando Ismāʽīl come (sesto) imam e suo figlio Muhammad come suo legittimo successore. All'interno di questo gruppo alcuni consideravano Ismāʽīl, altri il figlio Muhammad, come l'imam «scomparso» o nascosto. I seguaci di Ismāʽīl vengono chiamati ismaʽiliti e al loro interno una corrente importante è quella dei settìmani, che riconoscono sette califfi che vanno da 'Alī figlio di Ismāʽīl, Muhammad.
Il resto degli sciiti riconobbe come legittimi imām i personaggi indicati nella linea di discendenza che passa per Mūsā al-Kāzim sino a Muhammad al Muntazar (868-874). Questi scomparse a Sāmarrāʼ all'età di sei anni, naturalmente senza lasciare progenie, diventando così per i suoi seguaci l'imām nascosto che tornerò prima della fine del mondo, in qualità di mahdī, per restaurare il vero Islàm.
I seguaci di questo movimento si chiamano imamiti o anche duodecìmani, perché contando gli imām legittimi da 'Alī fino a Muhammad al Muntazar si arriva al numero di dodici. Troviamo così tre principali correnti all'interno del mondo sciita: zayditi, imamiti e ismailiti.
Zyaditi: sostengono che per essere 'imām non basta la discendenza, ma questa dev'essere accompagnala da qualità morali come onestà, valore, competenza, eloquenza, e così via. L'imām deve inoltre saper imporre la sua autorità e far valere i suoi diritti. Egli è «rettamente guidato» da Dio ma non è infallibile. Gli zayditi non hanno la dottrina dell'imām nascosto che invece è propria degli altri gruppi.
In dogmatica seguono in genere le posizioni muʽtazilite. Sono contrari al misticismo e alle confraternite. Lungo le coste meridionali del Mar Caspio, nel Tabaristan, gli zayditi riuscirono a fondare un proprio Stato, che tennero per circa trecento anni. Ottennero importanti successi anche nello Yemen. Il loro controllo sullo Stato del Tabaristan cessò tra l'XI e il XII secolo quando i cosiddetti «assassini» (gruppo di guerrieri che secondo alcuni avrebbero preso questo nome dall'abitudine di usare hashish prima delle battaglie) si sostituirono a loro alla guida del territorio. Nello Yemen l'influenza zaydita si è fatta sentire fino ai giorni nostri.
Imamiti o duodecìmani: riconoscono come ultimo legittimo 'imām il dodicesimo della serie, cioè il figlio di al-Hasan al-ʽAskarā, Muhammad detto al-Muntazar, cioè l'atteso. Questi scomparve, ancora giovanissimo (6, 7 o per alcuni 8 anni), in modo misterioso nei sotterranei della moschea di Sāmarrāʼ nell'874, lo stesso anno della morte del padre. Per gli imamiti non e morto, anzi è vivo e vegeto, immortale, però rimarrà nascosto fino a quando, alla fine del mondo o in una determinata era, riapparirà in qualità di mahdī far trionfare la giustizia e il vero Islàm. Questa convinzione si basa su un hadith secondo il quale il Profeta avrebbe detto: «Alla fine dei tempi [...] sorgerà un uomo della mia discendenza, il cui nome sarà identico al mio e la cui kunya sarà pure identica alla mia. Quest'uomo riempirà di giustizia la terra che sarà stata fino ad allora colmata d'ingiustizia». Muhammad e quindi l'imām «nascosto» o «l'atteso», «l'imām del Tempo» o ancora «il Signore dell'era presente» perché, sebbene nascosto, è pur sempre l'imām della comunità musulmana.
Per un certo tempo Muhammad avrebbe comunicato con la sua comunità attraverso quattro successivi agenti (wakīl), l'ultimo dei quali è morto nel 940. In seguito avrebbe guidato la sua comunità con la direzione spirituale dei dotti teologi (mujtahid) e per mezzo delle autorità civili. Nell'imam s'incarna una particella di luce divina che procedendo dai lombi di Adamo passa nei profeti e quindi nel «sigillo dei profeti», Muhammad il Profeta, e da lui negli 'imām, suoi discendenti carnali attraverso la figlia Fatima. L'imām è perciò infallibile e impeccabile: grazie alla sua profonda conoscenza dell'Islàm, trasmessagli dai suoi predecessori, è guida infallibile per la comunità. L'occultamento dell'imām rende impossibile, eccetto in casi di estrema difesa, la guerra santa, dal momento che questa può essere dichiarata solo dal legittimo 'imām. Anche gli imamiti si rifanno alla teologia muʽtazilita. Essendo stati spesso perseguitati dai califfi omayyadi e abbasidi, gli imamiti hanno messo in pratica la taqiyya, a cui si è già fatto cenno: era loro lecito dissimulare la propria fede e perfino mostrare un'apparente apostasia, purché la vera fede fosse conservata ben viva nell'intimo del cuore. L'imamismo è il movimento più diffuso in Persia, paese che nel 1502 dichiarò lo sciismo religione di Stato.
Isma‘iliti: non costituiscono un gruppo omogeneo. Sono divisi in tante ramificazioni che vanno dalle più moderate alle più estremiste, e su alcune di queste ultime ci si può domandare se siano ancora musulmane. Nel loro sistema sono penetrati molti elementi estranei all'Islàm, presi da religioni, filosofie, culture di vari popoli, così da formare un bagaglio dottrinale assai complesso e sovente difficile da districare.
Hanno portalo all'estremo la venerazione per la figura dell'imām. Il loro nome deriva da Ismāʽīl figlio di Ja‘far al-Sadiq, ma non si può ridurre la natura del loro gruppo a una questione di successione. Presso di loro infatti l'aspetto dottrinale è divenuto spesso preponderante e si è sviluppalo in forme molto complesse ed articolate.
Gli isma‘iliti dividono il tempo in sette grandi cicli, ad ognuno dei quali corrisponde una manifestazione divina. Sette sono i «profeti parlanti»: Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Gesù, Muhammad, l'imām Ismāʽīl. Accanto ad essi vi sono degli «assistenti muti», per esempio l'assistente di Abramo fu Ismaele, di Mose fu Aronne, di Gesù fu Pietro, di Muhammad fu 'Alī. Gli assistenti, avendo appreso l'insegnamento esoterico dai loro maestri, lo trasmettono a loro volta segretamente ai loro discepoli. Il Corano non può ovviamente che essere interpretato in modo allegorico. Gli adepti accedono alla spiegazione del senso nascosto sotto le parole
del Corano: è come togliere un velo che impedisce di conoscere la verità; gli
isma‘iliti sono perciò chiamati bātinyya, cioè «quelli del senso interiore». L'imām è il conoscitore della dottrina nascosta e quindi il detentore della verità. Egli fa conoscere questa dottrina ai fedeli mediante i suoi missionari, ai quali essi devono prestare la più piena fiducia e la più assoluta obbedienza.
La definizione di settìmani spesso abbinata agli isma‘iliti non è del tutto corretta, poiché il riconoscimento di sette soli imām è proprio soltanto di una delle varie branche del movimento. Questo si è infatti diviso in moltissime correnti, alcune delle quali molto famose.
I qarmatī traggono il proprio nome da quello del fondatore Hamdān Qarmat, un missionario iracheno vissuto a cavallo fra il IX e il X secolo che predicava tra l'altro una specie di comunismo rivoluzionario. Partendo da Kūfa, suo centro principale, si spostò in Siria e quindi nel deserto arabico, facendo numerosi proseliti.
La sua dottrina era un insieme di princìpi fondamentali islamici e di idee neoplatoniche e gnostiche. Un missionario qarmatī, Abū ‘Abd Allāh al-Shī‘ī, arrivò in Africa del Nord e reclutò i suoi primi seguaci tra le tribù berbere della Cabilia.
Contemporaneamente Abū Sa‘īd al-Jannabī, un seguace di Hamdān Qarmat, fondò, lungo le coste del Golfo Persico, uno Stato che durò dall'890 al 990 d.C., seminando il terrore nei paesi vicini e minacciando perfino Baghdad. Nel 930, il 12 gennaio, corrispondente all'ottavo giorno del mese del pellegrinaggio, i qarmatī attaccarono la Mecca ma non riuscirono ad impossessarsene. Dovettero ritirarsi ma come saccheggio asportarono la Pietra Nera della Ka‘ba, tra la costernazione e l'indignazione di lutto il mondo islamico. La restituirono soltanto ventidue anni dopo dietro un lauto compenso. Dopo un secolo di dominio la potenza dei qarmatī si esaurì.
I fatimidi, che presero il nome dalla presunta discendenza da Fatima, figlia di Muhammad. Il loro fondatore fu ‘Ubayd Allāh (?-934), per cui furono chiamati anche ubaiditi. Il centro dello Stato si spostò dalla Siria in Egitto e l'imām o califfo fatimide per un certo tempo ebbe una tale importanza da potersi contrapporre da pari a pari allo stesso califfo abbasside. AI Cairo fondarono la celebre moschea-università di Al-Azhar, annoverala fra i principali centri di studio e divulgazione dell'Islàm. Quanto a dottrina, i fatimidi furono molto più moderati dei qarmatī, avendo rinunciato alle idee comuniste e rivoluzionarie, e furono tolleranti nei confronti delle altre religioni. Fra i regnanti fatimidi dobbiamo ricordarne uno, forse non del tutto sano di mente, al-Hākim (9X5-1021), che si mise a perseguitare i cristiani ed ebrei e ordinò perfino la demolizione del Santo Sepolcro. Negli ultimi anni della sua vita proclamò se stesso incarnazione di Dio, poi scomparve misteriosamente nel 1021 nei pressi del Cairo. Curiose furono le conseguenze di questa sparizione: molti suoi seguaci, noti con il nome di drusi, non vollero credere che fosse morto e ne attesero il ritorno.
I nizariti, collegati al movimento fatimide d'Egitto: alla morte del califfo fatimide al-Mustansir (?-1094) avrebbe dovuto succedergli il figlio maggiore, da lui designato, Nizār, ma questi fu ucciso dopo una lunga guerra contro il fratello al Musta‘lī (?-1101). che lo sconfisse e fece giustiziare al Cairo. Gli egiziani accettarono la successione del fratello vincitore mentre in Siria ci si mantenne fedeli a Nizār. In particolare un persiano. Hasan ibn Sabbāh (?-1124), riconoscendo come legittimo califfo Nizār e presentandolo come «l'imam nascosto», riuscì a fondare una confederazione di principati in Siria e Persia. Tornato in Persia, cominciò la sua predicazione e fondò un «ordine» saldamente organizzato, con una rigida gerarchia e seguaci sottoposti a una ferrea disciplina. Nel 1090 riuscì a conquistare la fortezza di Alamūt, posta su un'impervia montagna non lontano da Qazwīn, e numerosi altri punti strategici in tutto il paese, diventando così uno Stato nello Stato. Hasan condusse una vita molto ritirata e impose un sistema di vita puritano. Sostenne con forza la dottrina secondo cui occorre accettare l'autorità assoluta in materia religiosa, tesi che avrebbe molto influenzato anche il famoso al-Ghazālī. Dai nizariti posteriori Hasan ibn Sabbāh fu considerato una figura carismatica, forse la più significativa del gruppo degli ismailiti riformatori che rifiutarono l'autorità dei fatimidi egiziani e che si separarono da questi. Fu considerato il degno successore dello scomparso Nizār e chiamato «il nostro maestro». La sua tomba divenne presto un santuario meta di pellegrinaggi.
Molti gli attribuirono l'organizzazione di un gruppo militare particolarmente addestrato, ì fida‘ī, o assassini consacrati, ma non vi sono documenti certi. I membri dell'ordine passarono alla storia col nome di «assassini». Anche se oggi sono state proposte etimologie alternative, una spiegazione suggestiva di questo nome è fatta risalire, come si è accennato, all'abituale uso di hashish e all'essere obbedienti tino alla morte nell'adempiere ai compiti loro assegnati. In verità furono molti gli omicidi da loro compiuti, cosicché il nome ha assunto presso di noi il suo significato attuale. La propaganda organizzata su basi nuove, con vari gradi di iniziazione e statuti segreti, fu chiamata «propaganda nuova». Gli adepti apprendevano per gradi la dottrina segreta, previo giuramento di non rivelarla a nessuno.
Ad Alamūt, nel 1164, Hasan II (?-1166), un capo che si diceva discendente di un nipote di Nizār e dunque legittimo imām, si proclamò iniziatore di un ciclo finale, quello della «resurrezione», nonché nuovo Profeta. La potenza dei nizariti ebbe termine quando i Mongoli piombarono sull'Iraq e posero fine al suo califfato.
3. kharijiti
I kharijiti sono un gruppo nettamente minoritario all'interno dell'Islàm, con circa un milione e centomila seguaci. Costituiscono la maggioranza della popolazione nell'Oman e a Zanzibar, e minoranze importanti in Algeria, Tunisia e Libia. Il loro nome rimanda al termine arabo khāriji, dal verbo kharaja (uscire), usato per designare i combattenti che uscirono dal partito di 'Alī dopo Siffin, non approvando la sua decisione di sottomettersi a un arbitrato. Delusi da 'Alī, questi combattenti proclamarono il diritto della comunità a scegliersi i propri capi. 'Alī combattè e sconfisse i kharijiti nella battaglia di Nahrawān (658), massacrandone un gran numero, ma perì egli stesso sotto il pugnale di un kharijita nel 661 a Kūfa. I kharijiti si presentano da allora come una corrente rigorista, secondo la quale un musulmano non è veramente tale se non osserva tutte le prescrizioni del Corano. Se non le osserva è considerato un infedele, dev'essere escluso dalla comunità e può anche essere ucciso (isti'rād, «assassinio religioso»). Ne consegue che il capo della comunità dev'essere il credente migliore, a prescindere dall'origine o dalla razza («fosse pure uno schiavo nero», secondo un celebre detto kharijita), e può perdere la propria posizione se non rispetta le prescrizioni coraniche.
Ben presto il kharijismo si scisse in due correnti, una radicale, rappresentata soprattutto dagli azraqiti, scomparsi alla fine del VII secolo, e una moderata, a sua volta suddivisa in Ibādiyyah, Sufriyya e Najadāt. La corrente moderata abbandonò la dottrina dell’isti'rād ed elaborò una distinzione fra colpe gravi e lievi: solo le prime portano all'esclusione del musulmano dalla comunità. Questa casistica - e lo stile di vita puritano che a essa si ricollega - ha influenzato il dibattito delle scuole giuridiche e costituisce il contributo principale della comunità kharijita (per il resto rimasta sempre piuttosto isolata) allo sviluppo culturale e dottrinale dell'Islàm.
4. Movimenti di origine islamica
La lista dei gruppi e movimenti che possiamo chiamare «di origine islamica» potrebbe essere molto lunga, dipanandosi in una serie infinita di discendenze più o meno riconosciute come legittime. Qui basti fare un cenno ad alcuni dei gruppi più discussi e più miti.
Piuttosto antica è la corrente dei drusi, che si ricollega storicamente alla dinastia dei Fatimidi, in particolare al califfo al-Hākim, il quale aveva trovato sostenitori della sua pretesa di essere Dio ed era stato elogiato dallo scrittore persiano Hamza e dal turco al-Darazī. Proprio da quest'ultimo deriva il nume «drusi», quantunque essi non amino chiamarsi con tale nome ma preferiscano piuttosto quello di «unitari». Il movimento ottenne una certa sequela nel Libano, dove ancora oggi sopravvive un grappo piuttosto numeroso di circa duecentomila fedeli.
I drusi sostengono che al-Hākim non è mai morto, ma è scomparso nel 1021, e il suo ritorno è atteso per la fine dei tempi. Hanno poi inserito altre innovazioni rispetto al movimento sciita: si dividono in «sapienti» e «ignoranti»; solo i «sapienti» conoscono la dottrina segreta che non e rivelata affatto agli «ignoranti».
Credono inoltre alla metempsicosi e all'abitazione del divino in certe persone storiche. Si sono adattati esteriormente alle forme religiose predominanti, usufruendo spesso del principio etico sciita della taqivya.
I nusayrī prendono il nome dal loro primo teologo Shu‘ayb ibn Nusayr (?-884), ma preferiscono chiamarsi ‘alawitì, cioè «seguaci di 'Alī », considerato una manifestazione divina o forse un'incarnazione di Dio. Per i nusayrī esisterebbe una specie di trinità formata da 'Alī, da Muhammad e dal persiano Salmān (?-656). il personaggio che consigliò a Muhammad di scavare il fossato per la difesa di Medina e che assunse tanta importanza presso molte sette estremiste. Credono nella metempsicosi e negano l'anima alle donne. Nutrono nondimeno una particolare devozione per Fatima, che però chiamano con il nome maschile Fātir, cioè «Creatore». Hanno una loro liturgia, che celebrano in case private, nella quale sono inserite diverse feste cristiane come il Natale, la Pasqua, la Pentecoste e anche santi cristiani, come santa Barbara, santa Caterina, san Giovanni Crisostomo; molti di loro portano inoltre nomi cristiani. La gente comune conosce assai poco della dottrina, perché questa è retaggio segreto dei capi. Vivono numerosi lungo le coste settentrionali della Siria.
Nell'area indiana, più recentemente, è sorto un altro importante movimento, denominato Ahmadiyya. La sua fondazione si deve a Mīrzā Ghulām Ahmad ( 1835 o 1839-1908) di Qādyān (Punjab), che nel 1889 si attribuì il titolo di «riformatore» del XIV secolo islamico, da poco inizialo. Questa sua pretesa non era in se eterodossa, giacché la tradizione musulmana sunnita, rifacendosi a un detto del Profeta, prevede un ciclico rinnovamento mediante uomini suscitati da Dio all'interno della umma e incaricati di restaurare la primitiva purezza della fede, corrottasi con il tempo. L'ampio seguito che ebbe la sua predicazione portò presto Ghulām Ahmad a spingersi ben oltre; egli infatti pretese nel 1891 di essere il mahdī che i musulmani attendevano, il messia degli ebrei, lo stesso Cristo tornato sulla terra e l'ultimo avatāra di Krishna. Oltreché per questo carattere sincretista, la dottrina degli ahmadī - oggi divisi in due comunità, una più radicale e una più moderata - è ritenuta inaccettabile dai sunniti poiché essa riconosce un inviato divino successivo a Muhammad. Per questi motivi il Pakistan, ove sono presenti in gran numero, rifiuta loro la qualità di musulmani che essi invece si attribuiscono. Abili propagandisti, gli ahmadī si sono diffusi anche in Africa e in Occidente. Oggi sfiorano i cinque milioni di seguaci.
Benché nati dal ceppo dello sciismo, infine, i bahāʽī non si considerano musulmani, ma seguaci di una nuova religione universale le cui caratteristiche sono ormai lontane da quelle dell'Islàm.
di Domenico Abdullah Buffarini
La sottomissione a Dio, l'imitazione del profeta Muhammad e la proclamazione della professione di fede (shahāda) fanno entrare nella comunità dei credenti. Chi accolta totalmente il Corano. il ruolo profetico di Muhammad e la sunna è un musulmano.
Parlando di scismi o di divisioni all'interno del mondo islamico, ci si allontana profondamente dalla concezione che il mondo occidentale e cristiano ha di questi termini. Paolo Branca afferma in proposito «Si parla tanto di "sette" islamiche, ma a rigore di termini è questa un'espressione che non si dovrebbe usare.
Non ci sono cioè nell'islam delle vere e proprie sette scismatiche o ereticali, se con questa espressione intendiamo gruppi che si distaccano da un'autorità costituita o dissentono su punti essenziali della dottrina. Un'autorità religiosa centrale infatti nell'Islàm non esiste, ma vige al suo posto il principio del consenso della comunità o almeno dei dotti, senza però che a questi termini sia data in alcun modo un'investitura ufficiale né gli strumenti per imporre una loro particolare interpretazione della religione al di fuori del grande solco tracciato dal Corano e dalla Sunna del Profeta. L'autorità ritenuta illegittima dai gruppi dissidenti è sempre stata quella politica piuttosto che quella religiosa, poiché quest'ultima di fatto non c'è. L'assenza di un'autorità religiosa porta con sé la mancanza di autentici dogmi: esistono cioè delle verità fondamentali che, in buona sostanza, si riducono ai due enunciati della professione di fede islamica (shahāda), ma il musulmano non è incline a troppo ardite costruzioni speculative sul mistero divino, né vedrebbe volentieri il suo credo affidato ai canali di trasmissione e di propagazione che non fossero il lento e maestoso fiume della tradizione».
Pur essendo vero che all'interno dell'Islàm sono venute a crearsi numerose divisioni, occorre tuttavia premettere una grande distinzione fra l'Islàm ufficiale e l'Islàm dichiarato assolutamente illegale. Nel primo vanno inseriti coloro che hanno l'accesso al pellegrinaggio alla Mecca, nel secondo coloro a cui il pellegrinaggio alla Mecca e ufficialmente vietato. Il primo gruppo si suddivide poi in molte scuole teologiche, giuridiche e in molte tradizioni che di volta in volta si sono venute a creare nel corso della storia.
L'Islàm non e uno. Come ha ben evidenzialo Henri Laoust, «dalla morte del Profeta, che si suole collocare 1'8 giugno 632 a Medina ove fu sepolto, l'Islàm ha cominciato a ramificarsi in fazioni, gruppi e tendenze: non vere e proprie sette, ma famiglie spirituali e scuole, che spesso si sono combattute più o meno duramente, ma che allo stesso tempo si sono definite proprio le une in apporto alle altre.
Molte sono scomparse nel corso della storia e altre estinzioni sono tuttora possibili, come resta possibile la nascita di nuove formulazioni dottrinali». In questa sede non si considera come una vera e propria divisione nell'Islàm la distinzione fra -Islàm delle moschee- e « Islàm delle confraternite». Le confraternite e il sufismo - la «mistica» islamica che vive spesso all'interno di esse - costituiscono un fenomeno trasversale rispetto alla divisione principale fra sunniti e sciiti.
La battaglia e l'arbitralo di Siffin (657 d.C.) rappresentano il momento centrale e culminante del dissidio all'interno della prima comunità islamica. Di qui nasce la divisione in sunniti, sciiti e kharijiti, ancora oggi più che mai valida.
1. Sunniti
Il sunnismo è diventato il filone dominante nel mondo islamica. Malgrado la larghissima diffusione geografica, la comunità sunnita ha mantenuto un'unità interna che né le divisioni in quattro scuole giuridico-filosofiche né i movimenti riformisti più recenti hanno potuto intaccare. Mentre lo sciismo ha dato vita a numerosi sottogruppi, soltanto l'ahmadismo e, in maniera molto indiretta, il sikhismo, una religione che nasce dall'incontro fra l'Islàm e l'induismo) sono sorti dal tronco sunnita.
Il sunnismo oggi raggruppa circa l’85% dei musulmani, si estende in un blocco piuttosto compatto dalla Mauritania alla Turchia e tende ad avanzare sempre di più nell'Africa nera. In Asia orientale la tenuta del sunnismo è discontinua, ma comprende i paesi musulmani più popolosi (Indonesia. India, Pakistan, Bangladesh. Malesia, Asia centrale). In America, il sunnismo, già presente nelle comunità immigrate, si è sviluppato presso i neri americani, ma in forme spesso eterodosse. Nei Balcani esistono alcune comunità sunnite, ultimi residui dell'impero ottomano, mentre l'immigrazione maghrebina, turca e pakistana ha introdotto il sunnismo in Europa occidentale. Le «Repubbliche musulmane» dell'ex-Unione Sovietica, in forte espansione demografica, sono sunnite ad eccezione dell'Azerbaijan e degli ismailiti del Pamir.
I sunniti si suddividono secondo vari «riti» o «scuole», che ammettono però gli stessi princìpi fondamentali e non differiscono che in alcune particolarità rituali e giuridiche.
La comunità sunnita dovrebbe essere guidata da un califfo (khalifā). Simbolo della sua unità. Al termine califfo, che ha il significato di «successore o «vicario», è stato sovente sostituito quello di imam. Quest'ultimo è usato soprattutto nei saggi di giurisprudenza.
I primi quattro successori di Muhammad sono considerati dei «ben guidati» e occupano un posto del tutto particolare nella lista dei califfi. Ognuno di loro è chiamato «vicario dell'Inviato di Dio» (khalifat Rasūli Llāh), mentre a partire dagli Omayyadi, e poi sotto gli Abbasidi, i vari califfi si sono dati il titolo di «vicario di Dio» (khalifat Allah). I primi quattro coprono un periodo di una trentina d'anni (632-661 ) spesso considerato come l'età d'oro dell'Islàm. Soprattutto durante il primo periodo, il califfo o imam è il capo supremo di tutti i credenti, simile a un monarca di diritto divino. Questo si realizza soprattutto sotto la dinastia omayyade e durante il primo periodo di quella abbassìde. In seguito, a partire dall'850, con l'inserimento di forti comunità lurche e poi ancora con l'arrivo dei Buyidi, il potere del califfo diminuisce sempre di più. Con l'avvento dei Selgiuchidi nel XII e XIII secolo, il califfo giunge a rappresentare soltanto un'autorità morale, anche se non si può dimenticare ciò che Muhammad avrebbe detto: «È meglio per la comunità vivere sessantanni sotto un califfo ingiusto che una notte sola senza califfo». Secondo un altro hadīth, «il credente che muore senza conoscere il proprio califfo, muore come se fosse vissuto ai tempi preislamici».
Sotto al califfo, emiri e visir avevano dei poteri generali concernenti le province dell'impero. Potevano diventare estremamente potenti, poiché controllavano le finanze di queste regioni, fino a ottenere talvolta anche una certa indipendenza. Accanto a questi vi era ancora la figura del muhtasib, il funzionario pubblico nominato dal califfo, il quale aveva il dovere di far applicare e rispettare le
leggi e i doveri religiosi, come ad esempio la preghiera del venerdì o il digiuno di ramadan.
Occorre poi considerare la figura del muftī, il giurista conoscitore del diritto coranico. Il credente può consultare dei giuristi che danno delle risposte sotto forma di sentenze o fautwa (plurale di fatwā) che spesso, conservate sotto forma di raccolte, costituiscono un precedente a cui potersi appellare. La figura del muftī gode di particolare considerazione all'interno del rito malikita.
Vanno anconi menzionati lo shaykh, o anziano, che custodisce la moschea; il qād, il giudice che applica la legge ai casi concreti e davanti a cui ci si sposa; il 'ālim (singolare del più noto 'ulamā') o interprete della legge.
Un'ultima considerazione dev'essere fatta sulla figura dell'imām ovvero di colui che guida la preghiera del venerdì all'interno della moschea. In questo caso l'imām è semplicemente un fedele che, dotato di particolare conoscenza del Corano e di buone capacità oratorie, aiuta i suoi fratelli nella fede a lodare Dio, a ricordare i doveri del credente e ad impegnarsi in un sincero cammino di miglioramento della propria vita. Nell'organizzazione sunnita il ruolo dell' imām - secondo questa accezione del termine, che non va confusa con quella precedentemente evocata di imām come califfo - può essere coperto da qualsiasi fedele purché dotato delle necessarie conoscenze.
2. Sciiti
a) Caratteri peculiari della shī'a
Secondo gli sciiti il califfato spettava ad 'Alī perché questa era la volontà di Muhammad espressa in un hadīth ignorato dai sunniti. Narra questo hadīth che, dopo il «pellegrinaggio da Dio», mentre Muhammad faceva ritorno a Medina, si fermò a Ghadir Khumm, il 18 di dhū l-hijja, per annunciare una rivelazione. Prendendo la mano di 'Alī, Muhammad disse: «Non sono io più caro ai credenti che la loro stessa vita?». Tutti risposero: «Sì. Inviato di Dio». Allora dichiarò: «Chiunque riconosce me come suo maestro, riconoscerà 'Alī come suo maestro». Il racconto continua poi citando un'altra istruzione di Muhammad: «Il più gran tesoro è il libro di Dio; l'altro tesoro è la linea dei miei discendenti, la Gente della mia Casa». Gli sciiti, o 'alidi, derivano dunque il proprio nome dall'essere stati un partito (shī'a) a sostegno di 'Alī e della sua dignità di successore di Muhammad.
Premesso questo indispensabile cenno storico, ci si può chiedere quale potrebbe essere il criterio per identificare come «eretica» o «scismatica» la corrente sciita rispetto a quella sunnita. In realtà un criterio non esiste. Gli sciiti riconoscono le stesse verità fondamentali dei sunniti e gli stessi pilastri della fede come pratiche obbligatone per il fedele.
Volendo evidenziare qualche punto di dissenso si può prendere ad esempio l'ijmā' (consenso della comunità), a cui gli sciiti conferiscono un valore minore rispetto ai sunniti, preterendogli l'autorità personale di un imam docente. Un altro punto di differenziazione è il valore peculiare dato dallo sciismo alla sofferenza, al martirio, che vi assume un carattere quasi redentivo. Un terzo elemento distintivo è il fatto che gran parte della shī'a adottò la teologia mu'tazilita e quindi, nell'interpretazione del Corano, fa anche uso del ta'wīl (trasposizione spirituale delle sure coraniche poco amata dai sunniti).
Ai requisiti che l'ortodossia sunnita ritiene necessari per la scelta del califfo o imām, gli sciiti aggiungono la discendenza da 'Alī e negano del tutto il principio di elezione. La dignità dell'imām si trasmette per nass (designazione), atto con il quale il padre designa il figlio che deve succedergli. L'imām, che presso gli sciiti assume un ruolo quasi trascendente, ben al di là delle caratteristiche che alla figura del califfo avevano attribuito i sunniti, è il solo conoscitore del senso intimo dell'Islàm, comunicato direttamente da Muhammad a 'Alī e da questi ai suoi discendenti, ed ha l'autorità docente obbligatoria e definitiva nell'interpretazione del Corano e della sunna. All'imām riconosciuta anche la 'isma, cioè l'infallibilità e l'impeccabilità.
Sono particolarmente venerati i «Cinque Puri», cioè la Sacra Famiglia: Muhammad, sua figlia Fatima, suo cugino e genero 'Alī e i due figli di Fatima e di 'Alī, Hasan (624-670) e il già citato Husayn. Estremamente importante è poi la venerazione per la figura femminile di Fatima: la nascita dei suoi due figli sarebbe miracolosa (Fatima li avrebbe generati rimanendo vergine, con un parto dall'ombelico) e il culto particolare di cui Fatima è oggetto conferisce all'Islàm sciita un aspetto più ingentilito.
L'imām e in generale i «Cinque Puri» hanno inoltre per la fede sciita un'importante funzione, quella di «mediatori» presso Dio. Il potere d'intercessione che nella religiosità sunnita è attribuito solo al Profeta, nella shī'a è una vera e propria mediazione svolta da tutti gli imām, tanto che nella salāt (la preghiera rituale) vengono inserite particolari formule d'invocazione rivolte a loro. Il personaggio più potente in questo senso è Husayn ucciso dagli Omayyadi dopo l'eroica lotta a Karbalā' (nell'attuale Iraq), presso il fiume Tigri, nel 680.
1ᵃ battaglia di Karbalā' fa di Husayn un eroe (anche per i sunniti), capace di un libero sacrificio per la salvezza dei musulmani. Un altro elemento è così introdotto nell'Islàm sciita: la rivalutazione del dolore, della sofferenza e della sconfitta come fatto religiosamente positivo In qualche modo questo elemento è collegato a un ulteriore aspetto dell'imamologia sciita, quello della «scomparsa» (ghayba) dell'ultimo imām - causa di sofferenza per la comunità, ma nello stesso tempo misteriosamente preordinata da Dio - su cui torneremo. L'idea di un ritorno alla fine dei tempi dell'ultimo imām che è entrato in «occultamento» ed è «nascosto» si sovrappone al tema del mahdī (il ben guidato), un personaggio destinato a prendere la guida dei credenti, nel tempo della fine, presente anche nell'escatologia dell'Islàm ortodosso sunnita. benché poco accentualo. Nella shī'a il mahdī escatologico è identificalo con l'imām nascosto. I vari rami della shī'a si distinsero storicamente per questioni di legittima successione degli imām: chi negava l'imamato di un successore sospetto, fermava la catena di discendenza all'imām precedente, la cui morte era allora una «scomparsa» o «occultamento». Altri continuavano la serie finché per un motivo o per l'altro dovevano fermarsi, ammettendo la scomparsa di un altro imām.
Altre prescrizioni possono riguardare il «ritiro spirituale» di almeno tre giorni e tre notti, non obbligatorio, ma raccomandato e da osservarsi solo in una di queste quattro moschee: Mecca. Medina. Kūfa e Bassora. Vi è inoltre l'uso di astenersi dai rapporti sessuali e dai profumi per adempiere ad un voto. Caratteristica del diritto matrimoniale sciita (secondo la scuola giuridica ja'farita) è la cosiddetta mu'ta o matrimonio temporaneo, che si differenzia da quello normale perché limitato nel tempo. Tale genere di matrimonio è considerato dal sunnismo assolutamente illecito. Una prescrizione, non ristretta agli sciiti, ma certo particolarmente utilizzata da loro è la taqiyya, secondo la quale il fedele non solo è esortato, ma obbligato a nascondere, con restrizione mentale, o dissimulare le proprie credenze in caso di pericolo o di danno per la comunità.
b) Storia della shī'a
Tutti gli sciiti furono d'accordo nel riconoscere gli stessi imām fino a 'Alī Zayn (?-715). In seguito un gruppo di loro non riconobbe come legittimo successore Muhammad al-Bāqir (688-732). Riconobbe invece suo fratello Zayd (7-740), da non confondere con l'omonimo redattore del Corano nel VII secolo, uomo valoroso che morì combattendo contro gli Omayyadi per far valere il proprio diritto al califfato. Questo gruppo è conosciuto con il nome di zayditi.
Gli altri sciiti continuarono a riconoscere i medesimi califfi sino a Ja'far al Sādiq (700-765). Questo califfo aveva in un primo tempo designato a succedergli il figlio Ismāʽīl (7-762), che tuttavia entrò in contrasto con il padre e comunque morì prima di lui. Alla sua morte scoppiò quindi una crisi di successione, risolta da alcuni in favore del figlio minore di Ja'far. Mūsā al-Kāzim (745-799). Un gruppo di sciiti tuttavia non riconobbe né Mūsā né gli altri pretendenti, considerando Ismāʽīl come (sesto) imam e suo figlio Muhammad come suo legittimo successore. All'interno di questo gruppo alcuni consideravano Ismāʽīl, altri il figlio Muhammad, come l'imam «scomparso» o nascosto. I seguaci di Ismāʽīl vengono chiamati ismaʽiliti e al loro interno una corrente importante è quella dei settìmani, che riconoscono sette califfi che vanno da 'Alī figlio di Ismāʽīl, Muhammad.
Il resto degli sciiti riconobbe come legittimi imām i personaggi indicati nella linea di discendenza che passa per Mūsā al-Kāzim sino a Muhammad al Muntazar (868-874). Questi scomparse a Sāmarrāʼ all'età di sei anni, naturalmente senza lasciare progenie, diventando così per i suoi seguaci l'imām nascosto che tornerò prima della fine del mondo, in qualità di mahdī, per restaurare il vero Islàm.
I seguaci di questo movimento si chiamano imamiti o anche duodecìmani, perché contando gli imām legittimi da 'Alī fino a Muhammad al Muntazar si arriva al numero di dodici. Troviamo così tre principali correnti all'interno del mondo sciita: zayditi, imamiti e ismailiti.
Zyaditi: sostengono che per essere 'imām non basta la discendenza, ma questa dev'essere accompagnala da qualità morali come onestà, valore, competenza, eloquenza, e così via. L'imām deve inoltre saper imporre la sua autorità e far valere i suoi diritti. Egli è «rettamente guidato» da Dio ma non è infallibile. Gli zayditi non hanno la dottrina dell'imām nascosto che invece è propria degli altri gruppi.
In dogmatica seguono in genere le posizioni muʽtazilite. Sono contrari al misticismo e alle confraternite. Lungo le coste meridionali del Mar Caspio, nel Tabaristan, gli zayditi riuscirono a fondare un proprio Stato, che tennero per circa trecento anni. Ottennero importanti successi anche nello Yemen. Il loro controllo sullo Stato del Tabaristan cessò tra l'XI e il XII secolo quando i cosiddetti «assassini» (gruppo di guerrieri che secondo alcuni avrebbero preso questo nome dall'abitudine di usare hashish prima delle battaglie) si sostituirono a loro alla guida del territorio. Nello Yemen l'influenza zaydita si è fatta sentire fino ai giorni nostri.
Imamiti o duodecìmani: riconoscono come ultimo legittimo 'imām il dodicesimo della serie, cioè il figlio di al-Hasan al-ʽAskarā, Muhammad detto al-Muntazar, cioè l'atteso. Questi scomparve, ancora giovanissimo (6, 7 o per alcuni 8 anni), in modo misterioso nei sotterranei della moschea di Sāmarrāʼ nell'874, lo stesso anno della morte del padre. Per gli imamiti non e morto, anzi è vivo e vegeto, immortale, però rimarrà nascosto fino a quando, alla fine del mondo o in una determinata era, riapparirà in qualità di mahdī far trionfare la giustizia e il vero Islàm. Questa convinzione si basa su un hadith secondo il quale il Profeta avrebbe detto: «Alla fine dei tempi [...] sorgerà un uomo della mia discendenza, il cui nome sarà identico al mio e la cui kunya sarà pure identica alla mia. Quest'uomo riempirà di giustizia la terra che sarà stata fino ad allora colmata d'ingiustizia». Muhammad e quindi l'imām «nascosto» o «l'atteso», «l'imām del Tempo» o ancora «il Signore dell'era presente» perché, sebbene nascosto, è pur sempre l'imām della comunità musulmana.
Per un certo tempo Muhammad avrebbe comunicato con la sua comunità attraverso quattro successivi agenti (wakīl), l'ultimo dei quali è morto nel 940. In seguito avrebbe guidato la sua comunità con la direzione spirituale dei dotti teologi (mujtahid) e per mezzo delle autorità civili. Nell'imam s'incarna una particella di luce divina che procedendo dai lombi di Adamo passa nei profeti e quindi nel «sigillo dei profeti», Muhammad il Profeta, e da lui negli 'imām, suoi discendenti carnali attraverso la figlia Fatima. L'imām è perciò infallibile e impeccabile: grazie alla sua profonda conoscenza dell'Islàm, trasmessagli dai suoi predecessori, è guida infallibile per la comunità. L'occultamento dell'imām rende impossibile, eccetto in casi di estrema difesa, la guerra santa, dal momento che questa può essere dichiarata solo dal legittimo 'imām. Anche gli imamiti si rifanno alla teologia muʽtazilita. Essendo stati spesso perseguitati dai califfi omayyadi e abbasidi, gli imamiti hanno messo in pratica la taqiyya, a cui si è già fatto cenno: era loro lecito dissimulare la propria fede e perfino mostrare un'apparente apostasia, purché la vera fede fosse conservata ben viva nell'intimo del cuore. L'imamismo è il movimento più diffuso in Persia, paese che nel 1502 dichiarò lo sciismo religione di Stato.
Isma‘iliti: non costituiscono un gruppo omogeneo. Sono divisi in tante ramificazioni che vanno dalle più moderate alle più estremiste, e su alcune di queste ultime ci si può domandare se siano ancora musulmane. Nel loro sistema sono penetrati molti elementi estranei all'Islàm, presi da religioni, filosofie, culture di vari popoli, così da formare un bagaglio dottrinale assai complesso e sovente difficile da districare.
Hanno portalo all'estremo la venerazione per la figura dell'imām. Il loro nome deriva da Ismāʽīl figlio di Ja‘far al-Sadiq, ma non si può ridurre la natura del loro gruppo a una questione di successione. Presso di loro infatti l'aspetto dottrinale è divenuto spesso preponderante e si è sviluppalo in forme molto complesse ed articolate.
Gli isma‘iliti dividono il tempo in sette grandi cicli, ad ognuno dei quali corrisponde una manifestazione divina. Sette sono i «profeti parlanti»: Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Gesù, Muhammad, l'imām Ismāʽīl. Accanto ad essi vi sono degli «assistenti muti», per esempio l'assistente di Abramo fu Ismaele, di Mose fu Aronne, di Gesù fu Pietro, di Muhammad fu 'Alī. Gli assistenti, avendo appreso l'insegnamento esoterico dai loro maestri, lo trasmettono a loro volta segretamente ai loro discepoli. Il Corano non può ovviamente che essere interpretato in modo allegorico. Gli adepti accedono alla spiegazione del senso nascosto sotto le parole
del Corano: è come togliere un velo che impedisce di conoscere la verità; gli
isma‘iliti sono perciò chiamati bātinyya, cioè «quelli del senso interiore». L'imām è il conoscitore della dottrina nascosta e quindi il detentore della verità. Egli fa conoscere questa dottrina ai fedeli mediante i suoi missionari, ai quali essi devono prestare la più piena fiducia e la più assoluta obbedienza.
La definizione di settìmani spesso abbinata agli isma‘iliti non è del tutto corretta, poiché il riconoscimento di sette soli imām è proprio soltanto di una delle varie branche del movimento. Questo si è infatti diviso in moltissime correnti, alcune delle quali molto famose.
I qarmatī traggono il proprio nome da quello del fondatore Hamdān Qarmat, un missionario iracheno vissuto a cavallo fra il IX e il X secolo che predicava tra l'altro una specie di comunismo rivoluzionario. Partendo da Kūfa, suo centro principale, si spostò in Siria e quindi nel deserto arabico, facendo numerosi proseliti.
La sua dottrina era un insieme di princìpi fondamentali islamici e di idee neoplatoniche e gnostiche. Un missionario qarmatī, Abū ‘Abd Allāh al-Shī‘ī, arrivò in Africa del Nord e reclutò i suoi primi seguaci tra le tribù berbere della Cabilia.
Contemporaneamente Abū Sa‘īd al-Jannabī, un seguace di Hamdān Qarmat, fondò, lungo le coste del Golfo Persico, uno Stato che durò dall'890 al 990 d.C., seminando il terrore nei paesi vicini e minacciando perfino Baghdad. Nel 930, il 12 gennaio, corrispondente all'ottavo giorno del mese del pellegrinaggio, i qarmatī attaccarono la Mecca ma non riuscirono ad impossessarsene. Dovettero ritirarsi ma come saccheggio asportarono la Pietra Nera della Ka‘ba, tra la costernazione e l'indignazione di lutto il mondo islamico. La restituirono soltanto ventidue anni dopo dietro un lauto compenso. Dopo un secolo di dominio la potenza dei qarmatī si esaurì.
I fatimidi, che presero il nome dalla presunta discendenza da Fatima, figlia di Muhammad. Il loro fondatore fu ‘Ubayd Allāh (?-934), per cui furono chiamati anche ubaiditi. Il centro dello Stato si spostò dalla Siria in Egitto e l'imām o califfo fatimide per un certo tempo ebbe una tale importanza da potersi contrapporre da pari a pari allo stesso califfo abbasside. AI Cairo fondarono la celebre moschea-università di Al-Azhar, annoverala fra i principali centri di studio e divulgazione dell'Islàm. Quanto a dottrina, i fatimidi furono molto più moderati dei qarmatī, avendo rinunciato alle idee comuniste e rivoluzionarie, e furono tolleranti nei confronti delle altre religioni. Fra i regnanti fatimidi dobbiamo ricordarne uno, forse non del tutto sano di mente, al-Hākim (9X5-1021), che si mise a perseguitare i cristiani ed ebrei e ordinò perfino la demolizione del Santo Sepolcro. Negli ultimi anni della sua vita proclamò se stesso incarnazione di Dio, poi scomparve misteriosamente nel 1021 nei pressi del Cairo. Curiose furono le conseguenze di questa sparizione: molti suoi seguaci, noti con il nome di drusi, non vollero credere che fosse morto e ne attesero il ritorno.
I nizariti, collegati al movimento fatimide d'Egitto: alla morte del califfo fatimide al-Mustansir (?-1094) avrebbe dovuto succedergli il figlio maggiore, da lui designato, Nizār, ma questi fu ucciso dopo una lunga guerra contro il fratello al Musta‘lī (?-1101). che lo sconfisse e fece giustiziare al Cairo. Gli egiziani accettarono la successione del fratello vincitore mentre in Siria ci si mantenne fedeli a Nizār. In particolare un persiano. Hasan ibn Sabbāh (?-1124), riconoscendo come legittimo califfo Nizār e presentandolo come «l'imam nascosto», riuscì a fondare una confederazione di principati in Siria e Persia. Tornato in Persia, cominciò la sua predicazione e fondò un «ordine» saldamente organizzato, con una rigida gerarchia e seguaci sottoposti a una ferrea disciplina. Nel 1090 riuscì a conquistare la fortezza di Alamūt, posta su un'impervia montagna non lontano da Qazwīn, e numerosi altri punti strategici in tutto il paese, diventando così uno Stato nello Stato. Hasan condusse una vita molto ritirata e impose un sistema di vita puritano. Sostenne con forza la dottrina secondo cui occorre accettare l'autorità assoluta in materia religiosa, tesi che avrebbe molto influenzato anche il famoso al-Ghazālī. Dai nizariti posteriori Hasan ibn Sabbāh fu considerato una figura carismatica, forse la più significativa del gruppo degli ismailiti riformatori che rifiutarono l'autorità dei fatimidi egiziani e che si separarono da questi. Fu considerato il degno successore dello scomparso Nizār e chiamato «il nostro maestro». La sua tomba divenne presto un santuario meta di pellegrinaggi.
Molti gli attribuirono l'organizzazione di un gruppo militare particolarmente addestrato, ì fida‘ī, o assassini consacrati, ma non vi sono documenti certi. I membri dell'ordine passarono alla storia col nome di «assassini». Anche se oggi sono state proposte etimologie alternative, una spiegazione suggestiva di questo nome è fatta risalire, come si è accennato, all'abituale uso di hashish e all'essere obbedienti tino alla morte nell'adempiere ai compiti loro assegnati. In verità furono molti gli omicidi da loro compiuti, cosicché il nome ha assunto presso di noi il suo significato attuale. La propaganda organizzata su basi nuove, con vari gradi di iniziazione e statuti segreti, fu chiamata «propaganda nuova». Gli adepti apprendevano per gradi la dottrina segreta, previo giuramento di non rivelarla a nessuno.
Ad Alamūt, nel 1164, Hasan II (?-1166), un capo che si diceva discendente di un nipote di Nizār e dunque legittimo imām, si proclamò iniziatore di un ciclo finale, quello della «resurrezione», nonché nuovo Profeta. La potenza dei nizariti ebbe termine quando i Mongoli piombarono sull'Iraq e posero fine al suo califfato.
3. kharijiti
I kharijiti sono un gruppo nettamente minoritario all'interno dell'Islàm, con circa un milione e centomila seguaci. Costituiscono la maggioranza della popolazione nell'Oman e a Zanzibar, e minoranze importanti in Algeria, Tunisia e Libia. Il loro nome rimanda al termine arabo khāriji, dal verbo kharaja (uscire), usato per designare i combattenti che uscirono dal partito di 'Alī dopo Siffin, non approvando la sua decisione di sottomettersi a un arbitrato. Delusi da 'Alī, questi combattenti proclamarono il diritto della comunità a scegliersi i propri capi. 'Alī combattè e sconfisse i kharijiti nella battaglia di Nahrawān (658), massacrandone un gran numero, ma perì egli stesso sotto il pugnale di un kharijita nel 661 a Kūfa. I kharijiti si presentano da allora come una corrente rigorista, secondo la quale un musulmano non è veramente tale se non osserva tutte le prescrizioni del Corano. Se non le osserva è considerato un infedele, dev'essere escluso dalla comunità e può anche essere ucciso (isti'rād, «assassinio religioso»). Ne consegue che il capo della comunità dev'essere il credente migliore, a prescindere dall'origine o dalla razza («fosse pure uno schiavo nero», secondo un celebre detto kharijita), e può perdere la propria posizione se non rispetta le prescrizioni coraniche.
Ben presto il kharijismo si scisse in due correnti, una radicale, rappresentata soprattutto dagli azraqiti, scomparsi alla fine del VII secolo, e una moderata, a sua volta suddivisa in Ibādiyyah, Sufriyya e Najadāt. La corrente moderata abbandonò la dottrina dell’isti'rād ed elaborò una distinzione fra colpe gravi e lievi: solo le prime portano all'esclusione del musulmano dalla comunità. Questa casistica - e lo stile di vita puritano che a essa si ricollega - ha influenzato il dibattito delle scuole giuridiche e costituisce il contributo principale della comunità kharijita (per il resto rimasta sempre piuttosto isolata) allo sviluppo culturale e dottrinale dell'Islàm.
4. Movimenti di origine islamica
La lista dei gruppi e movimenti che possiamo chiamare «di origine islamica» potrebbe essere molto lunga, dipanandosi in una serie infinita di discendenze più o meno riconosciute come legittime. Qui basti fare un cenno ad alcuni dei gruppi più discussi e più miti.
Piuttosto antica è la corrente dei drusi, che si ricollega storicamente alla dinastia dei Fatimidi, in particolare al califfo al-Hākim, il quale aveva trovato sostenitori della sua pretesa di essere Dio ed era stato elogiato dallo scrittore persiano Hamza e dal turco al-Darazī. Proprio da quest'ultimo deriva il nume «drusi», quantunque essi non amino chiamarsi con tale nome ma preferiscano piuttosto quello di «unitari». Il movimento ottenne una certa sequela nel Libano, dove ancora oggi sopravvive un grappo piuttosto numeroso di circa duecentomila fedeli.
I drusi sostengono che al-Hākim non è mai morto, ma è scomparso nel 1021, e il suo ritorno è atteso per la fine dei tempi. Hanno poi inserito altre innovazioni rispetto al movimento sciita: si dividono in «sapienti» e «ignoranti»; solo i «sapienti» conoscono la dottrina segreta che non e rivelata affatto agli «ignoranti».
Credono inoltre alla metempsicosi e all'abitazione del divino in certe persone storiche. Si sono adattati esteriormente alle forme religiose predominanti, usufruendo spesso del principio etico sciita della taqivya.
I nusayrī prendono il nome dal loro primo teologo Shu‘ayb ibn Nusayr (?-884), ma preferiscono chiamarsi ‘alawitì, cioè «seguaci di 'Alī », considerato una manifestazione divina o forse un'incarnazione di Dio. Per i nusayrī esisterebbe una specie di trinità formata da 'Alī, da Muhammad e dal persiano Salmān (?-656). il personaggio che consigliò a Muhammad di scavare il fossato per la difesa di Medina e che assunse tanta importanza presso molte sette estremiste. Credono nella metempsicosi e negano l'anima alle donne. Nutrono nondimeno una particolare devozione per Fatima, che però chiamano con il nome maschile Fātir, cioè «Creatore». Hanno una loro liturgia, che celebrano in case private, nella quale sono inserite diverse feste cristiane come il Natale, la Pasqua, la Pentecoste e anche santi cristiani, come santa Barbara, santa Caterina, san Giovanni Crisostomo; molti di loro portano inoltre nomi cristiani. La gente comune conosce assai poco della dottrina, perché questa è retaggio segreto dei capi. Vivono numerosi lungo le coste settentrionali della Siria.
Nell'area indiana, più recentemente, è sorto un altro importante movimento, denominato Ahmadiyya. La sua fondazione si deve a Mīrzā Ghulām Ahmad ( 1835 o 1839-1908) di Qādyān (Punjab), che nel 1889 si attribuì il titolo di «riformatore» del XIV secolo islamico, da poco inizialo. Questa sua pretesa non era in se eterodossa, giacché la tradizione musulmana sunnita, rifacendosi a un detto del Profeta, prevede un ciclico rinnovamento mediante uomini suscitati da Dio all'interno della umma e incaricati di restaurare la primitiva purezza della fede, corrottasi con il tempo. L'ampio seguito che ebbe la sua predicazione portò presto Ghulām Ahmad a spingersi ben oltre; egli infatti pretese nel 1891 di essere il mahdī che i musulmani attendevano, il messia degli ebrei, lo stesso Cristo tornato sulla terra e l'ultimo avatāra di Krishna. Oltreché per questo carattere sincretista, la dottrina degli ahmadī - oggi divisi in due comunità, una più radicale e una più moderata - è ritenuta inaccettabile dai sunniti poiché essa riconosce un inviato divino successivo a Muhammad. Per questi motivi il Pakistan, ove sono presenti in gran numero, rifiuta loro la qualità di musulmani che essi invece si attribuiscono. Abili propagandisti, gli ahmadī si sono diffusi anche in Africa e in Occidente. Oggi sfiorano i cinque milioni di seguaci.
Benché nati dal ceppo dello sciismo, infine, i bahāʽī non si considerano musulmani, ma seguaci di una nuova religione universale le cui caratteristiche sono ormai lontane da quelle dell'Islàm.
di Domenico Abdullah Buffarini